Camera 10 giugno 2008

Audizione del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, Mariastella Gelmini, sulle linee programmatiche del suo dicastero, limitatamente agli aspetti attinenti il settore dell'istruzione.

Signor presidente, onorevoli deputati, il grande rispetto che nutro per il lavoro del Parlamento e l'importanza che assegno al confronto con le Commissioni mi hanno indotto a chiedere al presidente Aprea e al presidente Possa di separare in due distinti momenti la mia audizione. Istruzione, università e ricerca scientifica costituiscono un tutt'uno, hanno per protagonista lo stesso soggetto, la persona nel suo cammino di crescita e di conoscenza, e sono parte dell'unica infrastruttura dell'educazione e del sapere. Tuttavia, la loro complessità, la diversità di linguaggi e in parte di problemi, la necessità di focalizzare sia pure a grandi linee il dibattito e di dare alla Commissione la più ampia possibilità di esprimersi meritano da parte di tutti noi l'esercizio di un duplice sforzo.
Oggi, quindi, discuterò con voi dalla scuola primaria e secondaria. È necessario sottolineare innanzitutto un aspetto che mi preme e che ritengo voi abbiate il diritto di sapere e io il dovere di esprimere, ovvero il criterio affettivo, il sentimento razionale con cui ho deciso di accettare questo incarico gravoso ed esaltante. So bene che esso è pesato su spalle di grandi filosofi e di eminenti letterati, ai quali non mi permetto certo di paragonarmi, se non per l'essenziale, che non è la scienza e la cultura, ma la passione per l'educazione, il desiderio che questa Italia cresca nel bene più prezioso che oggi si usa definire «capitale umano», ma che più semplicemente si chiama «persona».
In continuità con l'intendimento delle famiglie, la scuola è il luogo primo e decisivo di questa possibilità, in cui sola sta la speranza. Per definire la crisi che attraversa non solo l'Italia ma l'intero Occidente, il Santo Padre non ha esitato a parlare di «emergenza educativa» come del punto di debolezza maggiore della nostra società, parole che rispecchiano i sentimenti di preoccupazione che il Presidente Napolitano ha voluto manifestarmi.
Nel dibattito sulla fiducia lo scorso 13 maggio, questa espressione è stata richiamata dai deputati di entrambi gli schieramenti, in particolare dagli onorevoli Renato Farina del Popolo della Libertà e Marina Sereni del Partito democratico.

L'emergenza educativa non si affronta semplicemente con nuovi contenuti e nuove metodologie pur utili, né con il richiamo a valori astrattamente affermati. I valori, per essere condivisi e vissuti, devono essere convincenti per i ragazzi, come sono quando testimoniati da adulti (genitori, insegnanti, personale non docente), che propongono un senso positivo della vita.
Signor presidente, onorevoli deputati, ho deciso in queste settimane di mantenere il più assoluto riserbo sulle linee di indirizzo, salvo rispondere ad alcune urgenze rispetto alle quali il silenzio del ministro poteva essere male interpretato. Non ho concesso interviste né scritto articoli, ma ho invece iniziato a studiare i dossier, a leggere quanto di buono o meno buono è stato scritto in questi ultimi anni sulla scuola, a riflettere per impostare proposte ragionevoli e utili.
Oggi non intendo fare la lista della spesa, soprattutto perché i singoli capitoli di questa lista meritano (e credo li avranno) momenti di confronto focalizzato. Intendo invece esporre i princìpi e i metodi di un piano di legislatura. Sono sicura che il presidente della Commissione, l'onorevole Valentina Aprea, sia la persona più qualificata, anche per temperamento ed indole, a trasformare questo metodo in realtà quotidiana.
Signor presidente, onorevoli deputati, il Governo e il ministro hanno piena consapevolezza dei gravi e complessi problemi della scuola. Consentitemi di risparmiarvi una serie di dati di largo e pubblico dominio e di valutazioni, che in questi ultimi mesi ho visto largamente condivise, limitandomi solo ad alcuni numeri fondamentali.
Nelle comparazioni internazionali i nostri studenti risultano tra i più impreparati d'Europa. Le indagini OCSE-PISA, che misurano le competenze in ambito matematico e scientifico, la capacità di lettura e di soluzione dei problemi da parte dei quindicenni, collocano l'Italia ai livelli più bassi della classifica. Tra 57 Paesi siamo al trentatreesimo posto in lettura, al trentaseiesimo in cultura scientifica, al trentottesimo in matematica. Peggio di noi in Europa sono solo Grecia, Portogallo, Bulgaria e Romania, mentre meglio di noi Lituania e Slovenia. Negli ultimi sei anni siamo scivolati ancora più in basso.
Vorrei però sottolineare preliminarmente come i risultati cambino sia riguardo alla tipologia di scuola - meglio i licei, peggio gli istituti tecnici professionali - sia rispetto all'area geografica - meglio il nord, peggio il sud e le isole - sia all'interno di ciascuna area, con una distribuzione di emergenze e di eccellenza a macchia di leopardo.
Va anche sottolineato che, se tutti i commentatori hanno fermato la propria attenzione sui dati preoccupanti dei quindicenni, ben pochi hanno parlato delle scuole elementari, che mantengono invece un livello di eccellenza. Lo studio IEA PIRS pone i nostri bambini di 9 anni all'ottavo posto al mondo come capacità di lettura, secondi in Europa solo a Russia e Lussemburgo. Ritengo opportuno evitare di cercare soluzioni indifferenziate, giacché trattare malattie diverse con la stessa cura non è certamente un approccio razionale.
Premesso il quadro nazionale unitario, cui siamo chiamati dai princìpi espressi dall'articolo 117 della Costituzione, occorre superare una vecchia e deleteria logica centralistica, che non tiene conto delle specificità sociali e territoriali. Il nuovo ruolo delle regioni, sancito dal Titolo V della Carta costituzionale e da definire compiutamente nell'attuazione della legge n. 53, così come il necessario rafforzamento dell'autonomia scolastica, devono costituire una sorta di federalismo all'insegna della sussidiarietà, che rappresenta il quadro istituzionale entro cui affrontare i problemi.
Dobbiamo adottare la miglior cura per chi è più malato. Se siamo tutti convinti che l'istruzione è storicamente la più formidabile leva di emancipazione e di riscatto sociale, è ancora più urgente riparare questa leva nel Mezzogiorno d'Italia, dove i bassi livelli di apprendimento, la povertà e il degrado sociale rappresentano un male da estirpare. Quasi centocinquanta anni di studi e interventi dei grandi meridionalisti, sin dalle prime indagini di Sonnino e Franchetti, ci insegnano che solo attraverso il riscatto del Mezzogiorno e il dispiegamento delle sue enormi potenzialità l'Italia potrà considerarsi pienamente nazione.
A fronte di questi dati serve, a mio modo di vedere, uno scatto d'orgoglio nazionale. Ciascuno di noi è chiamato a reagire e a togliere quel velo di rassegnazione che troppo spesso accompagna l'analisi del sistema scolastico. Dai posti più bassi delle classifiche l'Italia può e deve risalire. Non possiamo rassegnarci, inoltre, di fronte al dato preoccupante della dispersione scolastica. È un dovere cui siamo chiamati non solo dal Protocollo di Lisbona, ma anche dalla necessità di garantire alle nuove generazioni tutti gli strumenti atti ad affrontare il futuro. Due milioni di studenti delle scuole superiori (oltre il 70 per cento) riportano una o più insufficienze al termine del primo quadrimestre, negli istituti professionali gli insufficienti sono ben 8 su 10, mentre duecentomila studenti delle superiori nel corso del quinquennio abbandonano la scuola o vengono bocciati.
In una scuola in cui, per riconoscimento unanime, seri e rigorosi criteri selettivi sono venuti scemando e in cui si registra un'enorme dispersione di capitale umano, o meglio di persone in carne ed ossa che vedono il proprio futuro pregiudicato, occorre una presa di posizione lontana da inutili visioni ideologiche. Il Paese ci chiede a gran voce di lasciare lo scontro politico fuori dalla scuola. Non basta elevare sulla carta l'obbligo scolastico ed è negativa la scorciatoia di semplificare i processi di apprendimento. Nostro compito è quello di offrire al Paese una scuola che ciascuno, secondo le proprie propensioni individuali, consideri strumento utile e necessario. Credo che sia giunta l'ora del buonsenso, del pragmatismo e delle soluzioni condivise.
Questo principio vale anche sul fronte degli insegnanti. Non possiamo ignorare che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore, dopo 15 anni di insegnamento, è pari a 27.500 euro lordi annui, tredicesima inclusa. In Germania ne guadagnerebbe 20.000 in più, in Finlandia 16 .000 in più. La media OCSE è superiore a 40.000 euro l'anno. Questa legislatura deve vedere uno sforzo unanime nel far sì che gli stipendi degli insegnanti siano adeguati alla media OCSE. Ma per fare questo le difficoltà sono molte ed è necessario aggredire le cause delle iniquità del sistema, mediocre nell'erogazione dei compensi, mediocre nei risultati, mediocre nelle speranze.
Una scuola ostaggio di rivendicazioni, più finalizzata allo scontro ideologico che non al recupero dei compiti del sistema, ha prodotto un esito che credo né i sindacati, né i partiti, né la società italiana tutta possano ritenere sensato: stipendi da fame, tramonto della cultura del merito, tramonto del senso della scuola.
È una sconfitta nazionale, cui tutti abbiamo il dovere di reagire invocando un vero cambiamento e non presunte riforme. Per troppi anni abbiamo creduto tutti che le riforme legislative potessero produrre una palingenesi del sistema educativo e abbiamo affidato all'approvazione parlamentare di leggi di sistema la nostra speranza di migliorare la scuola. Abbiamo investito le nostre energie sull'attività legislativa. Abbiamo discusso troppo e troppo a lungo di cicli, di modelli pedagogici, di indirizzi, di dottrine e di ideologie formative. Abbiamo imbullonato e sbullonato leggi e decreti, badando più al colore politico che alla sostanza dei problemi. Oggi dovremmo tutti renderci conto che abbiamo bisogno di buona amministrazione, di buongoverno, di semplificazione e di chiarezza. Il ministro prende qui l'impegno solenne di rispettare queste considerazioni.
Proporrò modifiche legislative solo laddove sia strettamente necessario; cercherò di contenere l'irresistibile tendenza burocratica a produrre montagne di regolamentazione confusa e incomprensibile, di favorire l'adozione di criteri generali e indicazioni nazionali leggibili, evitando la metastasi delle norme di dettaglio. Soprattutto cercherò di preservare e di mettere a sistema quanto di buono fatto dai miei predecessori. Per questo motivo non ho avuto tentennamenti rispetto alla cosiddetta «circolare Fioroni» sul recupero dei debiti scolastici attraverso prove supplementari. Nonostante il suo ritiro mi fosse chiesto da più parti - e mi avrebbe certamente garantito una facile popolarità - ho preferito rischiare di essere impopolare piuttosto che antipopolare. Ho provveduto certo a modificare aspetti che mi sembravano troppo dirigistici, ma non ne ho cambiato la sostanza. Questi anni hanno dimostrato che non c'è alternativa possibile e praticabile al ritorno della scuola dell'impegno e del rigore.
Per troppi anni la scuola, come altre istituzioni, è stata amministrata con una visione ribaltata rispetto alla logica e al buonsenso. Si è pensato che l'abbassamento della qualità potesse agevolare gli studenti offrendo agli insegnanti qualche garanzia in più in grado di compensare la perdita di ruolo e di status, con il risultato di non favorire né gli uni né gli altri. La scuola ha smesso di essere un servizio ai cittadini e alla nazione per diventare un enorme ammortizzatore sociale. Non c'è Paese al mondo che abbia fatto così. Non ci sarebbe organizzazione in grado di sopravvivere a queste procedure. È ingiusto per gli studenti e per i docenti, è soprattutto mortale per la qualità del sistema educativo.
Accanto a questo criterio autodistruttivo ne abbiamo introdotto un altro, che ha mortificato il senso di responsabilità. Abbiamo livellato le retribuzioni verso il basso e quindi - verrebbe da dire - toccato il fondo. Nella scuola abbiamo troppi dipendenti e poco pagati, con una carriera pressoché piatta. Non c'è quindi da stupirsi se tantissimi bravi maestri e professori non si sentono motivati, se tantissimi giovani preparati, con la vocazione all'insegnamento, scelgono altre strade; se lo Stato dà poco, non potrà che chiedere poco, in una spirale di frustrazione inarrestabile.
Dobbiamo trovare il modo di rovesciare questi criteri. La rivalutazione del ruolo dei docenti, a partire dal pieno riconoscimento del loro status professionale, che non può essere confuso con chi nella scuola ricopre altri ruoli, ancorché essenziali, è un nodo da sciogliere. Affermo questo ringraziando tutti quegli straordinari insegnanti, quegli eccezionali dirigenti scolastici, i membri del personale amministrativo, che non solo svolgono il proprio dovere, ma nonostante tutto vanno ben oltre. Abbiamo delle eccellenze da cui desidero imparare, andando non a fare visite rituali, ma vivendo la scuola con loro.
Dobbiamo trovare insieme il modo di migliorare le prestazioni della scuola, la retribuzione degli insegnanti e la qualità dei servizi accessori, sapendo che non disponiamo di risorse economiche illimitate, e che, anzi, dobbiamo compiere un grande sforzo di riqualificazione della spesa pubblica. Il precedente Governo aveva avviato un piano triennale di contenimento della spesa pubblica nel settore della scuola, che abbiamo ereditato e rispetto al quale non possiamo che procedere. I conti dello Stato e la situazione economica internazionale lo impongono. Va anche detto, tuttavia, che la coperta è corta, ma che la scuola è una priorità, anzi «la priorità». Non si tratta di un capitolo di bilancio qualsiasi, perché da essa dipende il futuro del Paese e il Governo dovrà tenerne conto.
Se vogliamo migliorare concretamente il sistema scolastico in Italia, non si può eludere il tema dell'autonomia e dell'assunzione di responsabilità a tutti i livelli. Parlare di autonomia significa innanzitutto valorizzare le governance degli istituti, dotarle di poteri e di risorse adeguate e puntare alla loro valutazione. Autonomia e valutazione sono due facce della stessa medaglia: non possiamo rendere piena l'autonomia scolastica senza un sistema di valutazione che certifichi in trasparenza come e con quali risultati venga speso il pubblico denaro.
Roger Abravanel in Meritocrazia definisce l'Italia un Paese pietrificato e come tale destinato al declino, precisando la sua idea di merito, che condivido pienamente. Meritocrazia è un sistema di valori che promuove l'eccellenza delle persone, indipendentemente dalla loro provenienza sociale, etnica, politica ed economica. Il merito non è una fonte di disuguaglianza, ma, al contrario, uno strumento per garantire pari opportunità ed è, dunque, la più alta forma di democrazia. Secondo Abravanel l'equazione del merito è «intelligenza più impegno. La scuola e l'università devono premiare gli studenti migliori. Se i risultati sono uguali per tutti, saranno sempre i figli dei privilegiati a prevalere». Ritengo che il punto di approdo del merito sia rappresentato dalla valutazione oggettiva degli studenti, degli insegnanti e delle scuole, che deve riguardare, scuola per scuola, non la presunta qualità dei processi e delle strutture, ma misurare il risultato dell'azione educativa sul singolo ragazzo quanto a valore aggiunto di cognizioni e crescita rispetto all'ingresso. Deve altresì tenere conto della dispersione scolastica. Serve un cambiamento epocale di mentalità, ma la società è pronta e se lo aspetta. Non sarà semplice e non sarà immediato, ma desidero dare il mio contributo per spargere i semi dal merito. Germoglieranno, ne sono sicura, perché l'Italia è pronta.
Se condividiamo il valore della valutazione, questa legislatura deve dare stabilmente all'Italia un sistema avanzato e riconosciuto. Se condividiamo il ruolo delle autonomie scolastiche, non solo a parole, ma nei fatti, sarà più facile liberare le loro potenzialità.
Ritengo fuorviante in questo senso parlare di parità scolastica marcando la diversità degli istituti scolastici in statali e privati. Si dice paritaria e paradossalmente con ciò si finisce per allargare il solco. Con la legge n. 62 del 2000, varata otto anni fa da un Governo di centrosinistra, esiste oggi in Italia un sistema pubblico di istruzione in cui convivono, in piena osservanza costituzionale, scuole dello Stato e scuole paritarie, istituite e gestite da privati. Tutte svolgono un servizio pubblico, in quanto tenute a rispondere a precise indicazioni ordinamentali stabilite dal sistema legislativo.
Le scuole statali servono oltre il 90 per cento dell'utenza e sono quindi una realtà estremamente ampia, importante e capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale. D'altra parte, sta crescendo in tante zone d'Italia la domanda delle famiglie per percorsi educativi con specifiche connotazioni, cui la scuola paritaria può fornire risposte adeguate. Un sistema pubblico d'istruzione, che fondi sul principio di sussidiarietà forme di pluralismo educativo, è la risposta alle esigenze di istruzione e di formazione del cittadino.
L'affermazione della parità scolastica sarebbe un espediente retorico, se si lasciassero languire o morire valide esperienze educative. Oltretutto, un dossier dell'AGESC rivela che il risparmio per l'erario, determinato nell'anno corrente dall'esistenza di queste libere iniziative, è di circa 5,5 miliardi, a fronte di un contributo di circa 500 milioni di euro. Invito tutti a pensare non agli istituti, ma agli studenti e alle loro famiglie. Ritengo infatti che tutte le famiglie meritino di poter liberamente scegliere dove far educare i propri figli.
Le risposte finanziarie fin qui sperimentate costituiscono un valido punto di partenza per individuare forme efficaci di sostegno alle famiglie. Le scelte che il Governo farà in proposito avranno tutto lo spazio del dibattito parlamentare, per arrivare ad un sistema equo e condiviso. In questo senso, sarà interessante valutare non solo le soluzioni messe a punto dai Governi nazionali succedutisi, ma anche le strategie promosse dai governi regionali più sensibili alla soluzione del problema.
Per quanto riguarda la condivisione degli obiettivi, al di là dei singoli temi e capitoli, occorre percorrere la strada del cambiamento condiviso, per dare stabilità al sistema. Solo condividendo la necessità di cambiare e rifuggendo da logiche conservative si entra in sintonia con larga parte del corpo sociale e si garantisce un senso al nostro ruolo. Quattordici associazioni di genitori, di dirigenti scolastici e di docenti hanno recentemente promosso un manifesto-appello, che chiede la condivisione di obiettivi che vanno dalla libertà di scelta educativa alla piena attuazione dell'autonomia scolastica, dalla personalizzazione dei piani di studio alla rivalutazione del ruolo del corpo docente. Altre spinte nella medesima direzione provengono dal mondo della scuola, dell'imprenditoria, dagli enti locali e dalle regioni, altre ancora dall'indagine conoscitiva condotta nella precedente legislatura dal Ministero dell'economia e delle finanze e dal Ministero dell'istruzione, i cui esiti sono stati raccolti e analizzati nel Libro bianco sulla scuola del settembre 2007.
Autonomia, valutazione e merito sono i grandi temi sui cui il Paese aspetta una risposta, in primo luogo dalla sottoscritta, e su cui il Parlamento ha il diritto e il dovere di esprimere la propria potestà legislativa. Mi sembra di poter registrare una convergenza anche con l'opposizione sulla necessità di avviare, citando dal programma del Partito democratico «una vera e propria carriera professionale degli insegnanti che valorizzi il merito e l'impegno» e ancora «nel realizzare un nuovo salto nell'autonomia degli istituti scolastici, facendo leva sulle capacità manageriali dei loro dirigenti all'interno di organi di governo aperti al contesto sociale e territoriale sulla valutazione sistematica dei risultati». Celebrando la Costituzione italiana, il mio predecessore, onorevole Fioroni, parlava di questa come della possibile legislatura del buonsenso. Condivido le sue parole.
Se esiste un campo in cui il buonsenso e la politica devono incontrarsi, questo è proprio quello della scuola. Proprio sotto l'egida del buonsenso, mi sembra si sia avviato il confronto con Maria Pia Garavaglia in qualità di ministro ombra dell'istruzione, che ringrazio, più ancora che per le parole di stima che ha voluto rivolgermi, per essere da subito entrata senza preclusioni nel merito dei primi atti compiuti dal mio dicastero. 
Oggi dobbiamo interrogarci anche su cosa chiediamo alla scuola. La risposta potrebbe apparire scontata, ma in realtà non lo è. Pochi si aspettano dalla scuola che fornisca conoscenze disciplinari, formazione culturale, formazione professionale ed educazione. Non se lo aspettano molti, troppi studenti. Non è un caso se abbiamo portato al 93 per cento il tasso di partecipazione all'istruzione secondaria superiore della fascia dei giovani tra i 15 e i 19 anni.
Nel 2006, un giovane su cinque tra i 18 e 24 anni aveva abbandonato prematuramente gli studi senza acquisire un diploma di scuola superiore o almeno una qualifica professionale entro il diciottesimo anno di età. Possiamo tendere a raggiungere gli obiettivi di Lisbona solo se a quei giovani e a quelle famiglie riusciamo a dimostrare e non a dire che in quel diploma e in quella qualifica risiede non un pezzo di carta, ma un futuro migliore.
Oggi i dati statistici indicano che la società italiana è immobile. Il figlio dell'operaio è drammaticamente condannato, se è fortunato, a fare l'operaio. Ditemi voi se questo può essere ritenuto un sistema equo.
Antonio Gramsci asseriva che il merito e la fatica dello studio sono gli unici possibili fattori di promozione sociale. È una citazione dai Quaderni dal carcere, che voglio ricordare prima di tutto a me stessa. Gramsci scriveva: «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio. È un processo di adattamento. È un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza». La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio e a domandare facilitazioni. Occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato.


Abbiamo di fronte a noi un'occasione: il precedente Governo ha stabilito, di concerto con le regioni, di rinviare al 1o settembre 2009 l'entrata a regime della legge n. 53. Il tempo è poco, ma il Parlamento e tutti gli attori coinvolti hanno la possibilità di dare al Paese una straordinaria prova di produttività. Ci sono due pilastri da rafforzare: il primo riguarda il nocciolo dell'istruzione, il secondo riguarda la personalizzazione dell'istruzione.
Lo Stato è chiamato dalla Costituzione a determinare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e a dettare le norme generali sull'istruzione. I livelli essenziali nella società della conoscenza non possono che essere costituiti da una formidabile preparazione di base, che oggi è venuta drammaticamente a mancare.
La patente delle tre «I» - inglese, internet e impresa -, indispensabile a percorrere le strade del terzo millennio, non può essere presa a discapito della quarta «I», quella di italiano, termine con cui ricomprendo l'antico trinomio «leggere, scrivere e fare di conto», da declinare e approfondire a seconda dei livelli e dei percorsi di istruzione, senza indulgere nello spezzettamento dei saperi e nei «progettifici», che, come segnalato dai moniti internazionali e dai documenti elaborati dal precedente Governo, producono nei nostri studenti inevitabili corto circuiti e deficit nella conoscenza, impossibili da recuperare.
Come fa dire Leonardo Sciascia al professore Carmelo Franzò «l'italiano non è l'italiano, è il ragionare». L'italiano è quindi il territorio in cui si esercita la ragione, la ricerca del senso, la matematica e infine le tre «I», che fioriscono bene solo in questo alveo di significato.


Le indicazioni nazionali saranno concentrate su questo obiettivo, lasciando alle autonomie scolastiche le più ampie possibilità, nella parti a loro riservate, di esaltare le proprie specificità, sempre - mi auguro - con l'obiettivo dell'eccellenza.
Si sarà notato che uso spesso la parola «eccellenza» e che non cerco sinonimi, perché lo scopo che con voi vorrei pormi è il seguente ossimoro: «la normalità dell'eccellenza». Non è un paradosso, ma l'attenzione che anima ogni educatore.
Quanto alla personalizzazione dell'istruzione, non intendo riassumere un dibattito troppo vasto e troppo ben conosciuto dai presenti, la cui leva principale è nell'interazione, nella sinergia tra autonomie scolastiche, docenti, studenti e famiglie. Al mondo non esiste legge o circolare ministeriale che possa indicare come e quando personalizzare. Esistono invece quadri di riferimento in grado di aiutare i soggetti della personalizzazione a parlare tra di loro e ad individuare le soluzioni concrete. Servono uno sforzo innanzitutto umano e il cuore dell'educatore che personalizzi l'istruzione.
Mi concentro ora, seppur per sommi capi, sulla scuola secondaria di secondo grado, sul sistema dei licei, degli istituti tecnici e professionali, sulla formazione professionale. Ho ereditato materiali utilissimi, come il rapporto della cosiddetta «Commissione De Toni» sull'istruzione tecnica e professionale, che ci consentono di non iniziare ancora una volta da capo.
La mia prospettiva - spero la nostra prospettiva - è quella di portare tutto il sistema in serie A. Ogni pezzo del sistema deve avere pari dignità, perché ogni persona deve avere gli strumenti atti ad edificare il proprio progetto di vita.
Vorrei che il dibattito sulla cosiddetta «scelta precoce» si trasformasse nella costruzione dei percorsi più adeguati per permettere ad ogni ragazzo di trovare la propria strada. Il substrato di quel dibattito, magari sottaciuto, è permeato da una concezione classista, per cui il liceo è di serie A, l'istruzione professionale e tecnica sono di serie B, il sistema regionale delle qualifiche è di serie C. Non è così, o meglio, non è scontato che debba essere così. Non è così per gli istituti tecnici, ad esempio, da cui proviene - mi limito a citare un dato - lo zoccolo duro dei nostri laureati in ingegneria. Mi rifiuto, inoltre, di considerare il sistema della formazione professionale come una sorta di suburra, in cui relegare forzosamente sui banchi adolescenti per così dire difficili.
Alcune regioni hanno costruito un sistema di grande qualità, che offre prospettive ai giovani e garantisce al mondo del lavoro persone preparate e predisposte alla formazione permanente. L'indifferenziazione dei percorsi, la pretesa di uccidere le propensioni individuali per pretendere ope legis che ogni adolescente percorra la stessa strada sono la traiettoria più sicura verso gli abbandoni e la dispersione. Diamo ad ogni persona la sua scuola e ogni persona troverà nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto. Ridare senso alla scuola significa ridare senso a ciascuno dei percorsi per gli studenti e per le loro famiglie, ridare una motivazione per ciascuno a stare sui banchi, per stare meglio nella vita. Alcune di queste motivazioni possono essere rintracciate nella permeabilità tra mondo della scuola e mondo del lavoro.
Alcune delle eccellenze nei settori dell'istruzione tecnica e della formazione professionale si fondano su questo interscambio, ma non credo che il sistema dei licei debba essere considerato una turris eburnea, tutt'altro. L'interazione tra scuola e lavoro, tra scuola e vita reale ha un ruolo inestimabile: far comprendere allo studente, in un'età difficile, l'utilità concreta di quanto sta facendo, che imparare serve ad essere promosso non solo a scuola, ma anche nella vita.


Nello spirito di una scuola che sia realmente per tutti, affermo il diritto all'istruzione di chi presenta abilità diverse. Gli obiettivi didattici, le metodologie e gli strumenti devono essere personalizzati e coerenti con le abilità di ciascuno, per definire i livelli di apprendimento attesi. Molte sono le buone pratiche costruite su competenza, professionalità, disponibilità e impegno delle diverse componenti scolastiche, dagli insegnanti di sostegno agli insegnanti curriculari, dai dirigenti scolastici alle associazioni. Occorre fare tesoro dell'esperienza. Il mio impegno è indirizzato ad ascoltare le esigenze, le criticità, le proposte delle famiglie e di tutte quelle realtà associative che si occupano di disabilità, al fine di individuare insieme anche percorsi formativi più adeguati al bisogno con la necessaria flessibilità, superando le rigidità non coerenti con l'azione educativa.
La scuola coinvolge la responsabilità dell'intera società, a cominciare dalle famiglie e dagli insegnanti. Elevare la qualità della scuola richiede un'assunzione di responsabilità collettiva. I fallimenti sperimentati nella quotidianità con i gravi fatti di violenza, di bullismo, di tossicodipendenza rendono consapevoli insegnanti e famiglie dell'impossibilità di farcela da soli, ciascuno per proprio conto, e della necessità di una cooperazione corresponsabile tra tutti i protagonisti del processo di crescita umana e professionale dei giovani.
Se avvicineremo famiglia, scuola, comunità civile e mondo del volontariato, con il suo patrimonio di valori vissuti e di conoscenza del prossimo, e li faremo convergere su un'attenzione disinteressata nei riguardi dei giovani, sarà possibile far fronte alla sfida dell'emergenza educativa. Solo una partnership tra scuola e famiglia è in grado di affrontare disagi e difficoltà e di perseguire la qualità nei rapporti e negli apprendimenti, in modo che ogni studente possa trovare nella scuola le condizioni per valorizzare le proprie capacità e realizzare il proprio progetto di vita.
Difficoltà di apprendimento, scarso rendimento scolastico, abbandono degli studi, inconsapevolezza delle regole, abuso di sostanze stupefacenti si trovano alla base di fenomeni antisociali, quali la micro delinquenza e il bullismo e si manifestano sempre più precocemente. Va anche osservato che troppo a lungo si sono delegate alla scuola responsabilità e azioni che competono alla famiglia, che, pur nelle sue difficoltà, rappresenta la base fondamentale su cui sviluppare le attività didattiche, formative ed educative.
In questi ultimi anni, in particolare, la crisi della famiglia rende ancora più complesso il compito della scuola. Il manifestarsi delle diverse forme di disagio, infatti, chiama in causa innanzitutto gli affetti, i sentimenti, la vita di relazione dei giovani. Se si vuole rispondere efficacemente alla profonda esigenza di trasmettere il valore del rispetto e dell'osservanza delle regole, il valore della legalità, dei diritti e dei doveri, occorre agire sin dai primi anni di vita, sin dalla scuola dell'infanzia e dalla scuola primaria.
Veniamo al tema dell'integrazione, una parole chiave: integrazione nella comunità, nella civitas. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla spinta migratoria, che coinvolge centinaia di migliaia di adulti e centinaia di migliaia di bambini. Il nostro primo obbligo è insegnare a tutti loro la lingua italiana e la Costituzione della Repubblica.
Non sono passati secoli, ma pochi lustri, da quando un'altra spinta migratoria all'interno del Paese è stata l'occasione per alfabetizzare centinaia di migliaia di italiani, che sono diventati l'ossatura della nostra industria e gli artefici, con la doppia fatica dello studio e del lavoro, del miracoloso boom economico italiano. Oggi dobbiamo garantire la stessa alfabetizzazione agli immigrati e ai loro figli, per loro e per i nostri figli. In numerose classi il processo di apprendimento è frenato dalla necessità di non lasciare indietro, di non escludere quote sempre più alte di alunni extracomunitari, ragazzi e ragazze con competenze proprie, ma penalizzati dalla barriera linguistica.
Occorre trovare soluzioni atte ad abbattere questa barriera e concentrare su quelle le nostre risorse professionali ed economiche, uscire dalle sperimentazioni per entrare nella normalità. Sulle modalità vorrei che si esprimesse la Commissione, ma chiederò anche l'aiuto di chi si trova in prima linea ad affrontare il problema, a partire dagli insegnanti delle classi in cui il numero di studenti stranieri è più elevato.
Alfabetizzazione significa anche alfabetizzazione civile per i figli degli extracomunitari, che devono apprendere le regole della comunità italiana, così come noi apprendiamo e applichiamo le regole delle case in cui veniamo ospitati, ma anche per i giovani italiani. Giusto cinquanta anni fa, un grande statista e Ministro della pubblica istruzione, Aldo Moro, introduceva nelle scuole lo studio dell'educazione civica. Mi sembra che potremmo celebrare degnamente questo cinquantenario e i sessanta anni dalla nascita della Costituzione restituendo un ruolo centrale all'educazione civica.
Signor presidente, onorevoli deputati, mi avvio ormai a concludere. Prima delle elezioni, un gruppo di volenterosi uomini di conoscenza, il cosiddetto «gruppo di Firenze», si è riunito per proporre agli italiani e in particolare alle forze politiche un manifesto-appello. Vorrei farlo mio e impossessarmi del suo messaggio più importante, laddove recita: «Sia le riforme sia il Governo e la vita della scuola, a tutti i livelli, dovranno ispirarsi ai criteri di merito e di responsabilità.

L'aggiornamento dei programmi, la riorganizzazione dell'istruzione superiore, l'autonomia delle scuole potranno dare risultati effettivi e duraturi solo recuperando e mettendo in pratica questi elementari princìpi dell'etica pubblica e privata. Dobbiamo offrire ai nostri ragazzi una scuola più qualificata ed efficace, ma insieme più esigente sul piano dei risultati e del comportamento. Dobbiamo restituire ai docenti, spesso demotivati e resi scettici da troppe frustrazioni, il prestigio e l'autorevolezza del loro ruolo, intervenendo, però, con tempestività e rigore nei casi - pochi, ma negativi per l'immagine della scuola - di palese negligenza o di inadeguatezza. I dirigenti scolastici, infine, andranno valutati in primo luogo per la loro capacità di garantire nel proprio istituto professionalità e rispetto delle regole da parte di tutti».
Desidero rivolgermi ai firmatari di questo appello, chiedendo loro aiuto. Sono infatti convinta che invertire la tendenza al degrado della scuola richieda un grande sforzo nazionale, cui sono chiamati il Parlamento e le parti sociali nelle loro definite responsabilità, cui è partecipe il mondo della cultura, il mondo dei giovani e le loro famiglie. Abbiamo bisogno di una grande alleanza per la scuola, che restituisca al Paese la parola «speranza».
A chi ha sottoscritto quel documento, ai tanti che in queste settimane mi hanno dato utilissimi consigli chiedo collaborazione, così come anche alle associazioni degli studenti. Recentemente, ho incontrato il loro forum e so che non sarà facile trovare una lingua comune, perché spesso sono stati dati per scontati una sostanziale incomunicabilità e un atteggiamento in cui ministro e rappresentanti degli studenti sono controparti. Non lo do per scontato e chiedo loro di non darlo per scontato, prendendo l'impegno di tenere aperto un canale non episodico di discussione. Su alcuni punti avremo probabilmente posizioni diverse, ma ci saremo parlati e confrontati.
La scuola ha bisogno di un grande impegno civile. Non dobbiamo rassegnarci e credere che la scuola italiana sia un malato terminale, ma è necessario uno scatto di orgoglio da parte di tutti. Personalmente ci credo, sono ottimista e intendo spendermi fino in fondo. Vi chiedo collaborazione e aiuto in questo sforzo di ricostruzione della principale infrastruttura italiana. Grazie. (Applausi).

http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/bollet/chiscobollt.asp?content=/_dati/leg16/lavori/bollet/framedin.asp?percboll=/_dati/leg16/lavori/bollet/200806/0610/html/07/

Camera 17 giugno 2008

MARIASTELLA GELMINI, Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca

Signor presidente, onorevoli deputati, siamo giunti alla seconda parte di quella duplice fatica cui facevo riferimento nel mio primo intervento di fronte alla Commissione. Cambiano, oggi, le materie trattate, ma non cambiano i cardini del ragionamento che ho precedentemente condiviso con voi. Istruzione, università e ricerca scientifica sono moduli distinti, ma rappresentano, insieme, l'infrastruttura del sapere e, come ogni infrastruttura, vincono solo se interconnessi l'uno all'altro.
La sfida decisiva del capitale umano e dell'innovazione si gioca a questo tavolo. Occorre riconoscere, innanzitutto, che l'università e la ricerca sono fattori indispensabili di sviluppo della nostra comunità nazionale. Eliminarne le criticità è quindi strategico.
A questo proposito occorre ricordare che nel recente passato il nostro sistema formativo era in grado di formare capitale umano di eccellenza. La domanda è la seguente: come è possibile recuperare questa capacità nell'attuale contesto sociale ed economico complesso e globalizzato?
Si prospettano due possibilità. Una gestione più fortemente centralizzata del sistema universitario, con regole uguali per
ogni ateneo, ogni professore, ogni ricercatore; oppure, prendendo atto delle diversità presenti tra i singoli atenei e centri di ricerca, porre le condizioni per valorizzarne la specificità. La seconda opzione, analogamente a quanto avviene in molti Paesi caratterizzati da sistemi universitari di eccellenza, ci sembra quella da sostenere.
Siamo chiamati, come istituzioni politiche e come società, ad un comune commitment per l'università e la ricerca, riconoscendone il ruolo primario per la formazione della classe dirigente, come fa ogni grande Paese moderno. La filosofia cui intendo informare l'azione del Ministero, per questi motivi, non cambia. Si fonda sul trinomio autonomia, valutazione, merito, che è quanto l'Italia, oggi, si aspetta da noi.
Vorrei, prima di tracciare un quadro generale della situazione e formulare alcune prime proposte, aggiungere altre due considerazioni. La prima, riguarda la leva legislativa, la seconda il ruolo dei giovani. Nel corso di questi ultimi anni si sono venute stratificando una serie di norme, a volte contraddittorie, a volte di difficile interpretazione, che hanno di volta in volta interrotto e contraddetto ipotesi di riforma, anche coraggiose, proposte dai ministri che si sono via via succeduti, a partire da Antonio Ruberti, cui va il mio commosso ricordo, per finire con Letizia Moratti, autrice di una proposta capace di intervenire su alcuni snodi fondamentali. Il mio impegno è quello di dotare, entro il termine dei cinque anni di legislatura, il mondo dell'università e della ricerca di regole certe e condivise, di testi unici che non siano la sommatoria di norme già esistenti, ma, al contrario, eliminino «il troppo e il vano» e liberino le ali dell'autonomia dal troppo piombo che ne impedisce il volo. Né io né voi
possiamo ovviamente paragonarci a Giustiniano; tuttavia, l'esempio di una attività legislativa che possa sfidare il futuro mi sembra ci debba essere caro.
Quanto al ruolo dei giovani, può sembrare pletorico ricordare quanto ricada su di loro il vizio di una società italiana ancora troppo ingessata, gerontocratica e refrattaria a riconoscere il merito. Si pensi che, in Italia, solo il 15 per cento dei dirigenti, l'8 per cento dei professori associati e l'1 per cento dei professori ordinari ha meno di 40 anni. Vorrei che fossero proprio i giovani ad aiutarci a progettare il futuro del Paese, che è in fondo, soprattutto, il loro futuro. Mi propongo di invitare al Ministero i giovani docenti e ricercatori per partecipare a un grande concorso di idee, e quindi per potermi aiutare a rendere realtà le idee migliori, a tradurle in pratica e a proporvele. Ho intenzione di spalancare le porte dell'EUR a quest'aria nuova, per investire davvero sui giovani talenti. È un dato di fatto che i risultati del nostro lavoro saranno misurabili in un futuro non immediato. Mi sembra giusto chiamare a progettarlo chi ne sarà protagonista.
E veniamo al quadro d'insieme. Ho incontrato nei primi giorni di questo mio mandato, un numero notevole di persone e rappresentanti di istituti di eccellenza su cui l'Italia può certamente contare. Ma sappiamo tutti che il sistema dell'università e della ricerca presenta, accanto a situazioni che gareggiano alla pari con le migliori realtà estere, un quadro non confortante. Nelle classifiche internazionali, i nostri atenei arrancano. Studenti, ricercatori e docenti provenienti dall'estero sono decisamente troppo pochi: e un'ottima università si distingue anche per un ambiente culturale internazionale.
La pronta adesione al «processo di Bologna» e la conseguente introduzione del «3+2», se ci ha consentito di aumentare il numero dei laureati, è messa da più parti sotto accusa per aver innescato un processo di licealizzazione prolungata e
una proliferazione di corsi e indirizzi che non ha eguali negli altri paesi europei: 3.200 corsi in Italia, contro gli 800 della Germania. Sul «3+2» intendo, peraltro, proseguire una rigorosa attività di monitoraggio e continuare sulla strada intrapresa dai miei predecessori verso una forte razionalizzazione dei corsi.
Va anche rilevato che la formazione post laurea di terzo e quarto livello, troppo spesso diviene una sorta di area di parcheggio da cui pescare mano d'opera accademica a basso costo. Inoltre, l'FFO è basato in larghissima parte sullo «storico» e alimenta bilanci ingessati, senza che una percentuale significativa delle risorse sia destinata a premiare il merito e l'eccellenza. Manca, inoltre, un collegamento stretto con il mondo del lavoro che dovrebbe caratterizzare molto più di quanto oggi avvenga le lauree triennali; si registra una scarsa valorizzazione delle forme di apprendistato professionalizzante finalizzato a garantire uno sbocco che sfrutti le competenze maturate. E non si può sottacere che, mentre gli iscritti ai corsi di laurea umanistici e di comunicazione sono migliaia, si rileva tuttora una scarsa percentuale di iscrizione ai corsi di laurea scientifici. Fin qui la fotografia dell'esistente. A noi il compito di trovare soluzioni adeguate per rilanciare la qualità degli studi e l'università.
E veniamo alle risorse. È un dato di fatto che la ricerca sia sottofinanziata. La percentuale di investimento in ricerca è in Italia pari all'1,09 per cento rispetto al PIL contro una media OCSE del 2,26 per cento. La percentuale di incremento annuo è del 2,70 per cento, in Grecia è del 16,70 per cento, in Estonia del 13 per cento. Con queste cifre, capite bene che è difficilissimo competere, se non impossibile. Sarebbe suicida mantenere un'arretratezza così evidente nell'investimento più utile per la crescita di una nazione e per la promozione
sociale. Si pensi che delle 20 migliori università, per risultati di ricerca e didattica, 17 sono negli Stati Uniti. E gli Stati Uniti sono il Paese con il più alto tasso di mobilità sociale.
Se da un lato dobbiamo fissare l'obiettivo di aumentare le risorse a disposizione, occorre, però, da subito, imparare a spenderle meglio, vincolandole alla responsabilità, ai risultati conseguiti ed eliminando sacche di spreco o di spesa poco produttiva. Possiamo chiedere al Paese uno sforzo finanziario aggiuntivo soltanto se garantiremo un rinnovamento nel metodo di spesa, vincolando cioè i finanziamenti al livello della didattica e della ricerca, portando ad almeno il 20 per cento del fondo la quota destinata a premiare i migliori. Più risorse e più meritocrazia saranno il nostro indirizzo.
Sulla leva finanziaria ci sono due tipi diversi di interventi da fare, a seconda della provenienza pubblica o privata dei fondi. Il primo intervento riguarda le risorse pubbliche. Siamo, in questo caso, con lo 0,58 per cento, più o meno al livello di altri paesi. Ma è inammissibile il ritardo con cui i bandi vengono promulgati, inammissibile la lentezza con cui i risultati vengono valutati e il tempo in cui i contributi vengono corrisposti. Erogare i fondi con mesi, se non anni, di ritardo, significa uccidere il sistema. Ho intenzione, in tal senso, di compiere uno sforzo prioritario per tagliare senza esitazione il cappio che strangola l'opera di tanti ricercatori. Dobbiamo dare un esempio di burocrazia efficiente. Può sembrare una contraddizione in termini, ma è essenziale fare di tutto per realizzare un sistema di distribuzione delle risorse che sia rapido, giusto ed equo.
Sul versante dell'investimento privato, le note sono invece in parte dolenti. Non solo le grandi imprese, salvo rare eccezioni, investono poco, ma il tessuto imprenditoriale italiano è caratterizzato, come sapete, da piccole e medie imprese, le quali fanno fatica ad accantonare fondi da investire per la ricerca, nonostante una grande propensione all'innovazione registrata dalle statistiche che va assolutamente riconosciuta. Mi impegno a studiare, di concerto con i colleghi di Governo, meccanismi di agevolazione per le piccole e medie imprese che coordinino i loro investimenti. Crediti di imposta e defiscalizzazioni sono, assieme all'unione delle forze - e penso anche al ruolo delle fondazioni bancarie, per esempio, al ruolo del no-profit, delle associazioni di categoria - la chiave per ridare risorse alla ricerca.
Ma il problema delle risorse riguarda anche le università, come ho precedentemente accennato. Si è data autonomia, senza però chiedere conto dei risultati. Sono troppi i casi di spesa senza controllo, di sforamento dei tetti previsti riguardo, ad esempio, alla quota massima del 90 per cento degli FFO per quanto riguarda il personale. Alcuni atenei, inoltre, versano in una situazione di avanzata esposizione finanziaria. Siamo pronti ad aiutarli, secondo piani pluriennali concordati di rientro dall'indebitamento, vincolandoli però rigorosamente ad una gestione responsabile e virtuosa della spesa.
Non è mia intenzione limitare in alcun modo l'autonomia degli atenei, ma desidero, insieme a loro, trovare soluzioni accettate e condivise, percorsi che recuperino i casi di dissesto con tempi e risorse certe; fissare regole altrettanto certe che consentano di liberare risorse per premiare la qualità. Occorre mettere in atto un chiaro patto di stabilità, individualizzato per ogni singolo ateneo, così da valorizzare le specificità.
E veniamo alla sfide. È mia intenzione, in questa relazione, affrontare solo alcuni dei punti che riguardano le linee di Governo, rinviando a momenti successivi l'approfondimento di altri punti.
 
Trovo che focalizzare la relazione su alcuni temi possa lasciare spazio maggiore al dibattito e del resto il campo è talmente vasto da esigere una prima selezione degli argomenti.
Dobbiamo affrontare con coraggio alcune sfide impellenti: l'autonomia e la responsabilità, la valutazione, il reclutamento dei docenti, il welfare studentesco, la governance, l'eccellenza e la riforma degli istituti di ricerca.
Per quanto riguarda l'autonomia e la responsabilità, la prima considerazione da fare è che il sistema dell'università e della ricerca si presenta estremamente variegato: atenei di diversa propensione e dimensione, centri di ricerca pubblici e privati, consorzi. Sarebbe fuorviante cercare di ridurre questo patrimonio di diversità a un tutto unico. Dobbiamo cercare, invece, di fare della diversità un punto di forza.
Senza dubbio l'autonomia ha un valore fondante, costitutivo e, direi quasi, antropologico. La constitutio habita, primo statuto della prima università, l'Alma Mater Studiorum di Bologna, concessa da Federico I nel 1158, giusto 950 anni fa, riconosce la libertà della ricerca e fa dell'università una libera societas di allievi presieduta da un maestro. E la carta costituzionale richiama il tema dell'autonomia: «Le istituzioni di alta cultura, - recita l'articolo 33 - università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Non intendo, quindi, in alcun modo, conculcare questa autonomia. Anzi, vorrei che insieme la rendessimo più piena, a patto che la stessa autonomia diventi più responsabile.
In questi anni si è riconosciuta l'autonomia alle università, senza però coniugarla con il richiamo alla responsabilità e alla valutazione delle scelte. Responsabilità significa la possibilità di essere premiati o sanzionati per le scelte, rispettivamente
vincenti o sconvenienti, che si sono operate. Richiamo il mondo dell'università a questa sfida, che so essere da loro già avvertita come cruciale per il rilancio del sistema.
Lavorerò per un sistema competitivo. Ma per chiarire cosa intendo per competizione, voglio affidarmi alle parole di Dario Antiseri: «Quando noi parliamo di competizione - dice Antiseri - spesso abbiamo paura di questa parola, perché la competizione è guerra; tuttavia, il progresso scientifico si ha perché la ricerca scientifica è una competizione serrata tra idee. Pensate alla battaglia tra copernicani e tolemaici, tra arbitralisti e meccanicisti in biologia. La scienza va avanti attraverso teorie e confutazioni, va avanti tra proposte di teorie e critiche a queste teorie. Non è razionale colui che difende la sua teoria ad ogni costo. (...). Quindi, è la competizione ad animare la scienza, la democrazia e il mercato e chi non vuole la competizione ha scelto di bloccare il mutamento. Del resto la parola cumpetere vuol dire cercare insieme la soluzione migliore in modo agonistico».
In tal senso avanzo una prospettiva di lavoro: la natura pubblica del sistema erogato non presuppone la natura statale dei soggetti erogatori. È un punto acquisito anche dal dibattito sulla parità scolastica, che a maggior ragione ritengo di proporre per l'università. Dunque, per un sistema che sia veramente e virtuosamente competitivo, l'approdo da auspicare è la parità delle condizioni finanziarie delle strutture pubbliche e private che rispettino, però, alcuni severi requisiti, evitando di relegare l'iniziativa privata per lo più in spazi residuali, destinati magari alla creazione di aree di eccellenza, ma anche di privilegio sociale. Ovviamente non hanno spazio nella mia concezione esempi di «esamifici» che possano spuntare, e che in parte sono spuntati, verso i quali l'atteggiamento del Ministero sarà di assoluto rigore.


Per far questo, dobbiamo innanzitutto elevare i criteri di accreditamento delle strutture universitarie, sulla base di alcuni parametri oggettivi e certificabili, quali le esigenze del territorio, la capacità di autofinanziamento, l'adeguatezza dei corsi di laurea rispetto agli obiettivi formativi, la composizione del corpo docente, l'idoneità tecnica delle strutture.
E veniamo alla valutazione che va, a mio modo di vedere, coniugata con la trasparenza. Per poter premiare le università virtuose, secondo il principio del merito e della responsabilità, ed incoraggiare quelle meno virtuose all'adozione di politiche migliori, è necessario affrontare il problema della valutazione. Anzitutto, occorre dire che intendiamo valutare i risultati più che le procedure, come nello spirito della delivery unit concepita da Tony Blair. La normativa in tema di valutazione è, nel nostro Paese, ancora in uno stato di incertezza. Il precedente Governo ha istituito l'ANVUR - Agenzia Nazionale di Valutazione - che dovrebbe sostituire il CNSVU - Comitato Nazionale di Valutazione del sistema Universitario - e il CIVR. Ma l'ANVUR non può ancora diventare operativa, per via dei rilievi che le sono stati mossi dal Consiglio di Stato. Peraltro, la stessa Corte dei conti ne ha registrato con riserva il regolamento.
L'ANVUR è stata concepita come una costosissima struttura ad alto tasso di burocrazia e rigidità, destinata a controllare anche le procedure e i meccanismi più piccoli,, caricata di eccessivi compiti che non potrebbe svolgere se non in tempi molto lunghi e non è questo quello di cui abbiamo bisogno. Occorre, dunque, rivedere la disciplina dell'ANVUR, al fine di assicurare al mondo dell'università e della ricerca un sistema integrato di valutazione, che vincoli il finanziamento ai risultati, incentivando l'efficacia e l'efficienza dei programmi di innovazione e di ricerca, la qualità della didattica, lo svolgimento
dei corsi anche in lingua inglese, la capacità di intercettare finanziamenti privati ed europei, il tasso di occupazione dei laureati coerente col titolo di studio conseguito.
In questo quadro di valutazione dobbiamo, però, preservare la specificità di un sistema variegato. Alcuni criteri saranno applicabili a tutte le facoltà e corsi di laurea, altri no. Esistono esperienze internazionali consolidate, paradigmi riconosciuti dalla comunità scientifica. Ci riferiremo ad essi, cercando la condivisione del mondo accademico. Tuttavia, nel frattempo non è possibile lasciare né le università né gli enti di ricerca, destinatari di finanziamenti pubblici, senza strumenti di valutazione, per cui è allo studio una proroga degli organismi vigenti.
Inoltre, per la valutazione dei risultati didattici e di ricerca pensiamo ad un doppio binario. Oltre alla doverosa valutazione da parte dell'Agenzia, occorre incoraggiare quella forma di valutazione plurale, spontanea, quotidiana, che viene operata dagli studenti e dalle famiglie ai fini della scelta dell'università da frequentare, così come viene operata dalle imprese e dalle fondazioni quando scelgono l'ateneo al quale indirizzare finanziamenti o richieste di collaborazione.
Questa forma di «valutazione dal basso» è essenziale. Affinché essa sia possibile, è necessario introdurre regole di trasparenza e di pubblicità. Le singole università dovranno fornire sui loro siti web, come avviene in gran parte del mondo anglosassone, i dati sugli sbocchi professionali dei loro studenti, sulla produzione scientifica annuale dei loro docenti e ricercatori e sulla customer satisfaction degli studenti, un monitoraggio che già diversi atenei, statali e privati, peraltro,
provvedono a compiere. Sappiamo tutti che solo con la trasparenza e l'accessibilità alle informazioni può affermarsi un sistema pienamente meritocratico.
Passiamo al tema del reclutamento. Non voglio neppure sottrarmi ad una prima riflessione in merito anche perché nei prossimi cinque anni è previsto un ricambio del 47 per cento del corpo docente. Le regole che stabiliamo ora sono destinate ad influire sul sistema universitario per i prossimi venti anni e a determinarne, almeno in parte, le sorti. Due sono le anomalie italiane: da una lato, l'anzianità dei professori ordinari e associati; dall'altro lato, i ricercatori sono pochi e inadeguatamente retribuiti. Entrambi questi dati dovranno essere portati nei prossimi cinque anni almeno vicini alla media europea.
Certamente dobbiamo prendere coscienza che non è possibile lasciare un'intera generazione ai margini del sistema della ricerca e dell'università. Non possiamo permetterci di rappresentare un'anomalia per il mondo industrializzato, non possiamo permetterci un'università che favorisca le progressioni di carriera locali piuttosto che l'ingresso di forze nuove. Inoltre, non possiamo permetterci un sistema duplicemente impermeabile, rispetto ai giovani studiosi italiani e rispetto agli studiosi stranieri.
L'area dei ricercatori e dei dottori di ricerca, quella dove si dovrebbe formare il corpo accademico, è ristretta. A fronte di circa 38 mila professori, più o meno equamente ripartiti tra ordinari e associati, ci sono 23 mila ricercatori: il sistema è più simile a un cilindro che non ad una piramide. Quanto ai dottori di ricerca, da noi ce ne sono circa 16 per ogni 100 mila abitanti, contro i 50 della media europea. Sul fronte dei ricercatori nella finanziaria del 2007 è stato previsto un finanziamento di 40 milioni di euro per il 2008 e di 80 per
il 2009 per coprire un congruo numero di posti. Il provvedimento, però, è subordinato all'emanazione di un regolamento, che tuttavia non ha visto ancora la luce, in quanto gli atti sinora presentati nella scorsa legislatura hanno ricevuto il parere negativo della Corte dei conti. Poiché i bandi debbono essere emanati entro il giugno 2008, stiamo intervenendo urgentemente per scongiurare l'eventualità di bloccare l'accesso alla carriera accademica di tanti giovani e di lasciare i fondi congelati, così come intendiamo prolungare sino al 30 novembre i bandi per i concorsi da professore ordinario e associato. Mi auguro che questo possa essere un obiettivo condiviso, anche in questo campo, per dare in futuro certezze che sono venute a mancare. Credo che si tratti di una priorità.
Poiché la retribuzione dei ricercatori è troppo bassa rispetto alla media europea, ciò rende il ruolo meno appetibile da parte dei giovani di talento. Occorre investire risorse perché i ricercatori universitari siano in numero maggiore e meglio pagati. Da pochi giorni abbiamo reso operativo l'emendamento presentato dal senatore Valditara che prevede l'aumento di 240 euro mensili per le borse di dottorato. L'intervento di adeguamento si affiancherà ad una riforma del dottorato stesso, che vogliamo improntata ad una drastica riduzione del numero dei corsi, ad un carattere più intensivo della ricerca e ad una più radicale internazionalizzazione. E proprio come fanno i grandi sistemi internazionali, favoriremo in tutti i modi i passaggi dal mondo dell'impresa all'università e viceversa, per evitare che ci siano ancora sacche di dottori di ricerca anziani e ricercatori che il sistema non è in grado di assorbire.
Quanto alle nuove regole di reclutamento per professori e ricercatori, pensiamo a procedure snelle e credibili, che assicurino meritocrazia e autonomia dei singoli atenei. Ne discuterò a breve con il CUN e con gli organismi interessati e mi limito, quindi, qui ad indicare alcune linee di indirizzo, che andranno poi valutate e verificate. Occorre, innanzitutto, una verifica nazionale di idoneità, riconosciuta da parte della comunità scientifica nel suo complesso. All'interno di una lista di idonei, le università sceglieranno autonomamente colui che ritengono lo studioso più capace nella produzione scientifica, più adatto a richiamare finanziamenti dalle imprese e/o iscrizioni da parte degli studenti. Nella lista degli idonei dovranno essere compresi, tramite regole di valutazione e riconoscimento dei titoli internazionali, anche gli studenti che lavorano all'estero, italiani o stranieri che siano. Ciò determinerà una crescente internazionalizzazione dell'università italiana, che sarà più permeabile alle energie di quanti, italiani e non, lavorano all'estero, anche sbarazzandosi di tetti che in ragione della scelta decisa verso l'autonomia non hanno ragione d'essere.
Il sistema meritocratico e di trasparenza con il quale saranno erogati i fondi pubblici, basato sui risultati di ricerca e di didattica, indurrà necessariamente i singoli atenei ad operare scelte responsabili e scoraggerà il più possibile azioni clientelari. Questo sistema di reclutamento in due fasi (attribuzione dell'idoneità su base nazionale e scelta del docente da parte del singolo ateneo) si richiama all'impostazione della riforma Moratti, che non ha purtroppo avuto attuazione nella precedente legislatura e che ritengo, invece, opportuno applicare. Proprio in base al principio dell'autonomia responsabile, è mia intenzione lasciare le università libere di chiamare, nei propri ranghi, anche docenti che non provengano strettamente dal mondo accademico e le cui caratteristiche rappresentino un valore aggiunto per gli atenei e per i corsi di laurea. Si tratta di un tema delicato e mi rendo conto che è esposto a dei rischi; per questo i meccanismi di selezione saranno comunque rigorosi e magari verrà individuata una proporzione.
Il merito e la responsabilità non soltanto informeranno il meccanismo di reclutamento, ma concorreranno anche a determinare almeno una parte della retribuzione del professore e del ricercatore. Il contratto nazionale fisserà solo la retribuzione di base, il resto sarà il frutto di una trattativa tra atenei, docenti e ricercatori, fondata su criteri meritocratici.
Passando alla governance, la parola chiave per il riassetto del sistema universitario italiano è proprio governance. Come tanti termini inglesi di uso comune, anche questo ha un cuore antico, collocato nella civiltà mediterranea. L'etimologia latina di governance, (guberno, o gubernatio) richiama l'idea della guida, del governo della nave in mare, della responsabilità di usare il timone secondo le aspettative di chi è a bordo. Il termine rimanda, per certi versi, anche all'idea della capacità di rispondere delle proprie scelte, della verifica e del controllo. Questo principio deve ispirare tutto il mondo accademico, in tutti i suoi aspetti, da quelli scientifici a quelli didattici, da quelli organizzativi a quelli finanziari. La sfida della governance è la sfida dell'autonomia di governo responsabile degli istituti universitari. So che i rettori delle università tengono particolarmente a questo tema. E libere associazioni di università, quale ad esempio Aquis, hanno sviluppato proposte e ragionamenti che mi paiono interessanti e che è mia intenzione approfondire e sviluppare.
Una governance responsabile si basa su grande libertà di organizzazione; sul passo indietro di una burocrazia statale che determini regole troppo rigide, come spesso è avvenuto, anche recentemente; sull'accentuata individualizzazione dei rapporti contrattuali che consente di valorizzare il merito di chi fa ricerca e didattica e che rende gli atenei direttamente responsabili delle loro scelte. Una governance moderna richiede l'introduzione di nuove figure, in grado di garantire il successo organizzativo degli atenei e indirizzate a reperire i finanziamenti esterni.
Ritengo che gli atenei debbano essere lasciati liberi di avvalersene, rimuovendo ogni eventuale ostacolo legislativo alla loro libera auto-organizzazione e limitando il ruolo dello Stato alla fissazione di alcuni paletti che rispettino la natura di societas dell'università e garantiscano, però, a tutta la collettività, un controllo rigoroso e trasparente.
E veniamo al welfare studentesco. Mi piacerebbe che le università fossero sempre più comunità vive e stanziali di studio e ricerca, dove studenti, docenti e ricercatori si arricchiscano reciprocamente. Occorre incoraggiare la crescita di queste comunità con la creazione di nuovi alloggi per studenti fuori sede, disincentivando lo scandaloso e crescente sfruttamento degli studenti spesso costretti ad affitti elevatissimi e fuori mercato. Penso ai campus, modellati sulla recente esperienza del collegio di Milano, di Catania, di Torino, di Pavia, iniziative sorte grazie alla partnership con le regioni in primis, ma anche con gli enti locali. Penso anche, più modestamente, a delle residenze universitarie. In modo particolare su questa materia desidero confrontarmi con il consiglio nazionale degli studenti universitari, valutando le loro proposte e i loro suggerimenti.
La mia stella polare per la creazione di un nuovo welfare studentesco è negli articoli 3 e 34 della Costituzione, laddove si fa riferimento al «compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» e (con riferimento all'articolo 34) al premio ai «più capaci e meritevoli». In cinquanta anni, questi obiettivi non sono stati raggiunti, se non parzialmente. Alcune regioni italiane hanno saputo compiere grandi sforzi e conseguire discreti risultati. Occorre fare tesoro delle loro esperienze e continuare su questa strada. Anche in tal caso ritengo urgente attivare un coordinamento con le regioni e gli enti locali che porti ad una maggiore considerazione dello studente, che non è un problema ma una risorsa, soprattutto per le città universitarie. Al fine di aiutare gli studenti, dobbiamo incentivare la pratica dei prestiti d'onore, rendendo l'erogazione più facile e di maggiore entità.
E veniamo all'eccellenza. In Italia vantiamo numerosi centri di eccellenza: la Normale e la Sant'Anna di Pisa, la Scuola internazionale, la SISA, l'Istituto di scienze umane di Firenze, l'Istituto universitario di studi superiori di Pavia, la Scuola di alti studi, l'IMT di Lucca. Tali istituti stanno operando bene, mostrando i risultati che possono essere raggiunti quando le parole autonomia e responsabilità sono perfettamente coniugate. Lo strumento delle cosiddette «scuole a statuto speciale» rappresenta una leva per l'eccellenza. L'Italia ha un disperato bisogno di eccellenza e di ritornare ad essere capitale di cultura e innovazione.
Queste realtà erano state «messe a sistema» da Letizia Moratti, chiamate intorno a un tavolo che purtroppo, da due anni, non è stato più convocato. Ritengo invece quel tavolo strategico per il Ministero e per tutto il mondo universitario ed è mia intenzione riattivarlo immediatamente. Dobbiamo proiettare, soprattutto, queste realtà ai vertici delle classifiche internazionali, dobbiamo, sul loro modello, stimolare la nascita di altri poli di eccellenza nelle varie parti del Paese e in modo particolare nel Mezzogiorno, realtà che sappiano coinvolgere consorzi universitari, fondazioni, centri di ricerca, nonché
attrarre fondi privati. Dobbiamo fare di queste realtà il vivaio da cui poter attingere la classe dirigente del Paese. Le Grande école francesi, le università di Oxford e Cambridge, gli atenei della Ivy League sono esempi cui guardare e a cui trovare dei corrispettivi.
La pubblica amministrazione, innanzitutto, ha bisogno dei giovani formati in queste scuole. Abbiamo avuto, nel recente passato, un esempio positivo che ha saputo coniugare merito e impegno al servizio del Paese. Mi riferisco al famoso primo corso-concorso per dirigenti pubblici, promosso da Sabino Cassese ormai più di dieci anni fa, che attraverso una selezione durissima ha regalato alla pubblica amministrazione alcuni dei suoi migliori dirigenti.
Passo ora al tema della ricerca. Sul capitolo dedicato alla ricerca intendo proporre alla Commissione alcuni punti fondamentali: innanzitutto i compiti di coordinamento del MIUR, il piano nazionale della ricerca, la rivisitazione degli enti di ricerca, il ruolo di ricercatori e tecnologi e il trasferimento tecnologico. Intendo innanzitutto rivendicare e attuare un forte ruolo di regìa e di coordinamento del MIUR su tutte le attività di ricerca che si svolgono o si progettano nel sistema Paese e sulle sue connessioni con la ricerca internazionale, in primo luogo europea. Per rendere competitiva la ricerca bisogna innanzitutto mapparla, razionalizzarla e darle coerenza. Servono quindi una riorganizzazione della ricerca, una razionalizzazione delle sue risorse, l'istituzione di nuovi criteri di valutazione, il coordinamento e la finalizzazione verso obiettivi strategici.
Per fare questo, occorre rileggere coraggiosamente la frammentazione della ricerca italiana, della sua gestione, del suo controllo e del suo finanziamento, frammentazione che esiste sia in senso orizzontale, presso diversi dicasteri e settori (università, enti di ricerca speciali pubblici e privati, dicasteri come quelli della salute, dell'ambiente, dell'agricoltura, delle attività produttive, dei beni culturali) e poi in senso verticale tra Europa, Stato, regioni e altre istituzioni locali.
Mi limito ad un solo esempio, che riguarda le ricerche marine. Oggi presso il MIUR oltre alla ricerca universitaria sono presenti a svolgere attività di ricerca anche marina il CNR, l'INGV, l'OGS, la Stazione zoologica, e presso altri ministeri l'ENEA, l'Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare, l'APAT e una serie di consorzi di ricerca per la pesca. Insomma, si tratta di una sfilza di istituzioni regionali per lo più collegate alle ARPA, nonché, da ultimo, alcune società scientifiche che hanno ottenuto finanziamenti per svolgere ricerca in prima persona, «appoggiandosi» sulle università o sulle cooperative.
Tutti questi attori si muovono indipendentemente e senza alcun coordinamento sia a livello nazionale che internazionale. Non si tratta certo di togliere o avocare competenze di merito, di portafoglio e di settore, o legami col territorio, o di interferire rispetto ad interventi speciali dettati da particolari condizioni. Si tratta però di porre e di pretendere la fine di duplicazioni, ridondanze, incoerenze di indirizzo e di obiettivo. Occorre valutare realisticamente gli effetti negativi di queste dinamiche in termini di pura e semplice competitività del sistema, in ultima analisi di sostenibilità economica. Fino ad oggi è venuto a mancare, volutamente o meno, questo ruolo trasversale di coordinamento attivo da parte del MIUR, che è, assieme alla promozione della ricerca, la sostanza stessa della sua ragion d'essere. Lo stesso lavoro di sistematizzazione va compiuto, innanzitutto, tra gli enti di ricerca italiani. Per questo ho apprezzato l'idea di un'indagine conoscitiva avanzata dall'onorevole Antonio Palmieri, che servirà a me, ma credo al Parlamento tutto, a fare chiarezza e ad individuare i rami secchi.
È mia intenzione procedere, peraltro, alla completa spoliticizzazione degli enti di ricerca. I loro futuri vertici saranno nominati in una rosa proposta da appositi search committee di livello internazionale e rigidamente vincolati, nel loro mandato, al raggiungimento degli obiettivi. Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla competenza e sull'autorevolezza che dobbiamo chiedere, e dare, ai nostri ricercatori e ai nostri tecnologi. La Commissione europea ha approvato nel marzo 2005 una raccomandazione riguardante la Carta europea dei ricercatori e un codice di condotta per l'assunzione dei ricercatori, contenenti princìpi generali e prescrizioni in materia di reclutamento, di progressione di carriera, di diritti e doveri, di mobilità, che gli Stati membri sono invitati a recepire, al fine di «offrire ai ricercatori dei sistemi di sviluppo di carriera sostenibili in tutte le fasi della loro carriera» e perché «i ricercatori vengano trattati come professionisti e considerati parte integrante delle istituzioni in cui lavorano».
In Italia - come sapete - siamo lontanissimi dal recepimento della raccomandazione comunitaria. La situazione è disastrosa, tanto dal punto di vista dello status giuridico, quanto da quello del reclutamento e della retribuzione. Proseguirò il programma di rientro dall'estero dei «cervelli», ma soprattutto mi sembra essenziale impedire che fuggano e, anzi, strappare possibilmente all'estero i «cervelli» migliori, offrendo loro prospettive. La concorrenza tra sistemi Paese e l'internazionalizzazione diventano parole vuote, se non si dà ai nostri ricercatori e tecnologi la dignità necessaria a sedersi nei club internazionali. E non gliela possiamo dare, se il loro status giuridico ed anche economico e i loro meccanismi di reclutamento e valutazione non consentono di guardare loro negli occhi i colleghi. Uno dei miei obiettivi è, pertanto, il recepimento della raccomandazione europea.
Ho già sviluppato, all'inizio del mio intervento, il tema delle risorse, che entra a pieno titolo in una rigorosa riorganizzazione della macchina pubblica. Vorrei toccare altri due punti, che riguardano il piano nazionale della ricerca e il trasferimento tecnologico. Sul primo avremo tempo e modo di confrontarci in maniera proficua e serrata. Da un primo giro di tavolo con gli stakeholder, emerge chiara l'esigenza di puntare su alcuni settori di eccellenza e su alcune specificità italiane. Soprattutto, è chiara la necessità di puntare a progetti di ricerca di medio-lungo periodo, che possono essere affrontati solo dal sistema pubblico, ma che nel loro percorso hanno ricadute immediate sulla conoscenza.
Le risorse che i vincoli di bilancio concedono devono spingere alla loro migliore allocazione possibile e certamente con attenzione prioritaria a quelle tecnologie definite abilitanti: tra queste, ovviamente, le biotecnologie, le nanotecnologie, gli ICT (Information comunication technology).
Due settori mi sono particolarmente cari e su questo vorrei chiedere poi il contributo della Commissione perché credo che dobbiamo connotare politicamente il tema della ricerca: penso all'agroalimentare, che rappresenta una delle punte di lancia del made in Italy, sul quale, peraltro, è in atto anche un progetto da parte di diverse fondazione bancarie, quindi con la possibilità di recuperare anche qualche fondo, e sul quale poi si offre l'opportunità dell'Expo 2015; penso infine che non si possa nemmeno trascurare la ricerca sulle fonti energetiche rinnovabili.
Per quanto riguarda le linee di indirizzo, il Ministero intende promuovere un ruolo attivo della ricerca italiana nell'ambito dell'European technology platform, costituitasi su incoraggiamento della Commissione europea, al fine di individuare gli obiettivi strategici di medio e lungo termine per la ricerca europea e per attuare gli obiettivi della rinnovata strategia di sviluppo.
Le ETP sono guidate dai rappresentanti del mondo industriale e produttivo delle filiere di interesse e coinvolgono tutti gli stakeholder di ciascuna filiera, sia pubblici che privati. In alcuni settori e per alcune delle piattaforme europee si è realizzato un corrispettivo italiano. L'obiettivo è quello di identificare priorità di ricerca e di sviluppo tecnologico mirate all'innovazione del settore a livello nazionale.
A partire dal 2006 sono stati costituiti, nel nostro Paese, piattaforme tecnologiche italiane o gruppi di supporto a sostegno della Knowledge-based bio-economy. In questa fase è molto importante promuovere le PTI, illustrarne gli scopi e le finalità per creare coordinamento e sinergie anche a livello sovraregionale.
Ho spesso citato nel mio intervento il rapporto tra pubblico e privato. La loro alleanza è possibile ed auspicabile nonché l'unico modo - aggiungo - per avere più risorse. Voglio però essere chiara. Non si tratta, come qualcuno può pensare, di «piegare la ricerca al mercato». Si tratta di comprendere, innanzitutto a livello filosofico e concettuale, che la ricerca, pubblica e privata, ha un ruolo sociale, risolve i problemi del cittadino e ne migliora la vita. Occorre, però, ricordare che tutti i processi di valorizzazione dei risultati della ricerca, mediante meccanismi che definiamo di technology transfer, possono generare valore aggiunto per chi li ha prodotti, creando quindi un volano economico per finanziare la ricerca
stessa, come avviene nei migliori centri anglosassoni ed essere inoltre un motore di innovazione per chi li sfrutta, che per essere competitivo necessita di poter attingere ai risultati della ricerca no-profit.
Affinché il processo possa avvenire in modo efficace sono necessarie normative chiare per la definizione dei diritti di proprietà industriale, con meccanismi di incentivazione per i ricercatori che producano invenzioni, cultura e formazione appropriata; se il ricercatore non ha questa cultura, non potrà nemmeno valorizzare i risultati della sua ricerca. In questo senso è tipico il frequente caso del ricercatore che pubblica prima di brevettare. Occorrono allora strutture qualificate ed adeguate, i cosiddetti TTO (Technology transfer office), presso i principali centri di ricerca, che possano gestire in modo professionale tutte le fasi del technology transfer, dalla brevettazione alla contrattualistica, dal marketing al business development, alla definizione di un eventuale progetto industriale, e così via; occorre, insomma, favorire la creazione dei cosidetti «incubatori», cioè strutture fisicamente inserite all'interno di alcuni centri di ricerca, dove le nuove iniziative possano nascere ed essere accompagnate in un processo di sviluppo e consolidamento e dove realtà industriali già avviate e consolidate possano trovare una sede adeguata che favorisca l'interazione con masse critiche di ricerca in grado di dare maggiore competitività e favorire il technology transfer.
In Italia si fa ricerca, ci sono risorse private, finanziarie e industriali che potrebbero e vorrebbero investire nelle biotecnologie, nella biomedicina, nella nanotecnologia. Tuttavia, non c'è una cultura e una struttura per il trasferimento tecnologico, non c'è un'estesa capacità di dialogo tra i due settori. Un ruolo importante nel dialogo tra ricerca, industria e mercato lo possono giocare due elementi già presenti nello scenario: i progetti congiunti tra enti di ricerca e industrie, i parchi e i distretti tecnologici.
I distretti e i parchi tecnologici costituiscono in teoria luoghi privilegiati per alimentare la filiera dell'economia della conoscenza, perché mettono a contatto tutti gli attori e i momenti del meccanismo di generazione di valore economico a partire dalla ricerca, sia di base che applicata, fino all'industria e al territorio; tutti questi fattori vengono fatti sedere attorno ad un medesimo tavolo. Prevedono in genere infrastrutture tecnologiche centralizzate e disponibili e servizi per assistere le varie fasi: servizi per fund rising, competenze per il business planning, marketing, consulenza legale, brevettuale, aziendale. Sono quindi il laboratorio ideale per coltivare e realizzare l'applicazione della ricerca e la sua valorizzazione economica. Nella formazione post laurea, di terzo e quarto livello, si dovrebbero individuare con chiarezza percorsi per creare manager specializzati in questa direzione.
E mi avvio a concludere. Signor presidente, onorevoli deputati, so di non essere stata breve e, nonostante ciò, di non aver toccato tutti gli argomenti che mi premevano. Mi importa, al di là di un carniere di argomenti, aver fornito un metodo di lavoro, alcuni princìpi e alcune priorità di azione del Governo. Il filo rosso che ho cercato di utilizzare per tenere insieme i miei ragionamenti, oltre ai concetti chiave di autonomia, valutazione, merito, semplificazione legislativa e centralità dei giovani, si chiama futuro del Paese. Ciascuno di noi è chiamato, nell'ambito del proprio ruolo istituzionale, quale che sia l'orientamento politico di riferimento, a scrivere la propria parte e possibilmente a scriverla insieme. Sono
certa che questa Commissione contribuirà autorevolmente alla realizzazione di questo fine comune attraverso un confronto continuo e costruttivo.

http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/bollet/chiscobollt.asp?content=/_dati/leg16/lavori/bollet/framedin.asp?percboll=/_dati/leg16/lavori/bollet/200806/0617/html/07/


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