UGO FOSCOLO
I SONETTI E LE ODI
I Sonetti scritti da Foscolo appartengono quasi tutti agli anni dal 1800 al 1803, come già per
l' Ortis,
anche questi sono passati attraverso più fasi di revisione, l' edizione
definitiva fu curata a Milano e ripropose otto sonetti di una precedente
edizione con l'aggiunta di altri quattro più due odi. Odi e sonetti dunque
sono contemporanei ma assolutamente lontani per la materia cantata; i sonetti
infatti rappresentano, in qualche modo, un ritratto compiuto dell'autore con
le sue passioni, la politica e l'amore; le odi sono essenzialmente unl'esaltazione del mondo
classico.
Nei sonetti si avverte man mano il superamento dell'Ortis,
se
in questo c'era il suicidio del protagonista inteso come espressione di rivolta contro
le ingiustizie del mondo e del suo tempo, qui, invece, riscontriamo una più matura consapevolezza della
necessità di vivere nel proprio tempo. Ovviamente il superamento della
materia dell' Ortis avviene
per gradi e certe strofe rimangono ancora nell'atmosfera del romanzo come
accade in questi due sonetti appartenenti al primo gruppo: Perché taccia e Meritamente entrambi ispirati all'amore per la Roncioni, una considerazione diversa merita il sonetto
E tu ne' carmi. Qui lo spunto autobiografico perde vigore a favore di
meditazioni più ampie e universali che stabiliscono un rapporto più diretto
tra la coscienza individuale e la realtà esterna attraverso cui arriva quasi
alla sublimazione della poetica e alla produzione
dei sonetti maggiori che, per comune riconoscimento, sono ritenuti di tono
sostanzialmente più alto. Essi sono:
- Alla Musa,
- A Zacinto, - In morte del fratello Giovanni, - Alla sera.
In tutti la materia dell' Ortis è
ormai
ridotta all'essenziale ed il sottofondo biografico serve esclusivamente
per donare alle liriche una umanità
attraverso cui si effettua il passaggio dalla soggettività dell'autore all' universalità, alla vita di tutti. Una vita che per gran parte
è dolore, inquietudine, travaglio, fino ad arrivare all'equazione sera =
morte. In questa immagine c'è tutta l'amarezza e l'abbandono di ogni umana
speranza; famosissima l'immagine della «fatal
quiete» nel sonetto Alla sera. Leggiamo direttamente:
«Forse perché della fatal quiete
tu sei l'imago, a
me sì cara vieni,
o Sera! E quando
ti corteggian liete
le nubi estive e
i zefiri sereni,
e quando dal
nevoso aeree inquiete
tenebre e lunghe
all'inverno meni,
sempre scendi
invocata e le secrete
vie del mio cor
soavemente tieni.
Vagar mi fai cò miei pensier su l'orme
che
vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde
meco egli si strugge;
e mentr' io
guardo la tua pace, dorme
quello spirto
guerrier ch'entro mi rugge»
Nel sonetto
In morte del fratello Giovanni, scritto in onore del fratello Giovanni,
morto suicida ritorna il tema della morte, accanto a quello della tomba e
degli affetti familiari dispersi che si riannodano sul sepolcro. Così scrive
Foscolo nella prima quartina:
Un dì, s'io
non andrò sempre fuggendo
di gente in
gente, me vedrai seduto
sulla tua
pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de'
tuoi gentili anni caduto.
Si avverte
immediatamente la rielaborazione di un luogo di Catullo, ma pure in questi
ricordi libreschi Foscolo ritrova se stesso. A Venezia, accanto alla tomba del
giovane suicida, immagina la madre, che parla col morto dell'altro figlio
vivo, di lui, il poeta, esule. questo senso di un fatale peregrinare sarà poi
riprese nei Sepolcri, intanto riconosciamo in questo sonetto un esule,
una tomba, una madre e da questo nodo angoscioso si alza la protesta del poeta
che dice:
Sento gli
avversi Numi, e le secrete
cure che al
viver tuo furon tempesta,
e prego anch'
io nel tuo porto quiete.
Questo di
tanta speme oggi mi resta!
Ancora una volta
la morte, che pure è apparsa nel suo aspetto più tragico nella persona del
fratello, gli mostra un volto rasserenante e gli ripete la sua promessa di
pace. Ma è una triste consolazione.
Un dramma e una
riflessione dolente anche nel sonetto A Zacinto:
Nè più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto gicque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea
quell' isole feconde
col suo primo
sorriso, onde non tacque
le tue limpide
nubi e le tue fronde
l'inclito
verso di colui che l'acque
cantò fatali,
ed il diverso esiglio
per cui, bello
di fama e di sventura,
baciò la sua
petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro
che il canto avrai del figlio,
o materna mia
terra: a noi prescrisse
il fato
illacrimata sepoltura.
In questo sonetto si intravede una corona di
affetti, di ricordi, di miti, di presagi tratti dall'intimo e deposti
religiosamente «sulle sacre sponde» dell'isola nativa, presenti sempre alla
nostalgia del poeta. Le riflessioni del poeta ritornano in un'atmosfera tutta
intessuta di echi della poesia classica e assumono un significato universale:
il greco mar rimanda la mito della nascita di Venere e al sorriso che
rese feconde di vita quelle terre, l'esilio dell'antico eroe Ulisse riporta
all'esilio dl poeta e così il passato si lega al presente. Ma a Ulisse-Foscolo
non sarà concesso di rivedere la sua terra. Alla fine del periodo uno squillo
eroico saluta Ulisse «bello di fama e di sventura». Dopo, il presentimento
profetico della morte in terra lontana.
Nel sonetto Alla Musa Foscolo, che sempre dalla poesia ha tratto
conforto alle sue pene, avverte che la Musa lo abbandona,
lamenta l’inaridirsi della vena poetica attraverso l'immagine della sorgente
che si secca. E’ il sonetto in cui il poeta esplicita il suo rapporto con
la poesia e purtroppo sente che le poche rime faticosamente costruite
non valgono a lenirgli il male che prova il suo cuore, deluso per l'amore
contrastato e per la patria tradita. Per questa desolazione e tristezza il
sonetto prende la forma di lamento rivolto alla Musa che lo lascia ai pensosi
ricordi e ad un cieco timore del futuro, ed eccolo qui il tema centrale della
poesia: il dolore e l’incognita del futuro, che affliggono e spaventano il
poeta. Di pari passo si ritrova la nostalgica evocazione del mondo
classico nell' amara considerazione che l' autore fa della sua situazione
attuale, nell' invocazione alla musa, nel ricordare «la stagion prima»
della sua vita, quando la Musa ancora lo ispirava:
Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e
dietro erale intanto
questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo
spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del
futuro al timor cieco.
Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che
deve albergar meco.
Si possono facilmente riconoscere varie analogie tra questo e gli altri
sonetti già considerati, per prima cosa notiamo l’uso dell’interlocutore
diretto, comune anche a A Zacinto, In morte al fratello
Giovanni, Alla sera: infatti si rivolge rispettivamente al luogo di
nascita, al fratello deceduto e alla sera; comune è anche la ripresa di
elementi classici: la Musa, i Numi, Venere e Ulisse. Gli elementi classici
insieme alle immagini mitologiche saranno alla base di un'altra produzione
lirica del Foscolo, le due Odi neoclassiche.
L'ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo
L'ode fu scritta a Genova nel
1800 e fu ispirata dall'infortunio toccato a questa giovane e bella dama che,
cavalcando con una brigata di gentiluomini, fu sbalzata di sella dal cavallo
imbizzarrito e trascinata a lungo con un piede impigliato nella staffa.
Rimase irrimediabilmente deturpata nel viso. Nel centro dell'ode la scena è
rievocata così:
Invan presaghi
i venti
il polveroso
agghiacciano
petto, e le
reni ardenti
dell' inquieto
alipede,
ed irritante
il morso
accresce
impeto al corso.
Ardon gli
sguardi, fuma
la bocca,
agita l'ardua
testa, vola la
spuma,
ed i manti
volubili
lorda e l'
incerto freno
ed il candido
seno;
e il sudor
piove, e i crini
sul collo irti
svolazzano;
suonan gli
antri marini
all' incalzato
scalpito
della zampa,
che caccia
polve e sassi
in sua traccia.
Già dal lito
si slancia ,
sordo ai
clamori e al fremito;
già già fino
alla pancia
nuota....e
ingorde si gonfiano
non più memori
l'acque,
che una Dea da
lor nacque.
Se non che il
re dell'onde,
dolente ancor
di Ippolito,
surs eper le
profonde
vie del
tirreno talamo,
e respinse il
furente
col cenno
onnipotente.
Quei dal
flutto arretrosse
ricalcitrando
e, orribile!
sovra l'anche
rizzosse;
scuote
l'arcion, te misera
su la petrosa
riva
strascinando
mal viva.
Le sestine
descrivono la cavalcata e la sua tragica conclusione, una
descrizione, si direbbe realistica: ma è realtà di donna e dea insieme.
Dall'inizio alla fine dell'ode, infatti, la triste vicenda della donna
appare trasfigurata in un mondo di miti, dal quale vengono evocati Venere e Adone, Pallade
e Diana. Dea anche la bella dama genovese che vive di vicinanze e
confronti mitici. C'è nell'ode il completo superamento della materia
autobiografica a favore dell' esaltazione del mondo classico, in questo senso
il componimento è chiaramente neoclassico; Foscolo ci trasferisce in un mondo
di perfetta bellezza, in un eden classico, un mondo di perfetta armonia, in
cui rifugiarsi e da contrapporre alle disarmonie della vita. Anche
l'atteggiamento con cui Foscolo contempla la bellezza femminea gli deriva dal
mondo del mito: le antiche dee soffrivano e per loro la serenità nasceva dal
superamento degli affanni, proprio come accade a questa dama la cui bellezza
non è un bene statico ed immobile nella sua perfezione, anzi, perennemente
minacciato.
L'ode
All'amica risanata,
Continua la riflessione del poeta sulla
caducità dei valori umani che, per quanto grandi, sono destinati a finire.
Foscolo non canta solo la bellezza la bellezza, destinata a sfiorire, ma canta
anche l'amore che continua ad essere vivo anche quando la bellezza della donna
sfiorisce. In questa ode la donna non è una dama
estranea alla vita affettiva del poeta, ma è Antonietta Fagnani Arese, la
donna per la quale egli prova una forte passione. La composizione dell'ode
procedette di pari passo alla durata dell' amore. Se nell'ode della Pallavicini, l'immagine della donna nasceva da una piena fusione fra mito e
realtà, compenetrati tanto da finire nell'astratto, qui invece la fusione non
è tanto intima da non lasciare un margine all'umanità della donna e si intende
umanità fisica attraverso cui la donna accenna a prevalere sulla dea. La
stessa novità, rispetto alla prima ode, del metro, dove l'ultimo verso della
strofa non è più un settenario ma un endecasillabo che sembra volere dare al
poeta un indugio più lento e sensuale, ultima vibrazione di una passione che
era stata tutta di sensi:
Qual dagli
antri marini
l' astro più
caro a Venere
co' rugiadosi
crini
fra le
fuggenti tenebre
appare, e il
suo viaggio
orna col lume
dell'eterno raggio;
sorgon così
tue dive
membra dall'
egro talamo,
e in te beltà
rivive,
l'aurea
beltade ond'ebbero
ristoro unico
a' mali
le nate a
vaneggiar menti mortali.
Fiorir sul
caro viso
veggo la rosa;
tornano
i grandi occhi
al sorriso
insidiando; e
vegliano
per te in
novelli pianti
trepide madri,
e sospettose amanti.
Riassumendo, Foscolo scrisse due odi di natura
prevalentemente neoclassica sia per l’uso di immagini mitiche sia per il
linguaggio aulico nonché per i temi fondamentali che sono la bellezza serenatrice
e l'arte eternatrice; per entrambe prese spunto da
occasioni concrete. La caduta da cavallo di una gentil donna che ne restò
sfigurata, e la malattia di
un’amica che perse momentaneamente la bellezza. Tali fatti indussero il poeta
a riflettere sulla caducità dei valori umani che, per quanto grandi, sono
destinati a finire. All’arte spetta dunque il compito di eternarli.
I
SEPOLCRI
I Sepolcri, o meglio Dei Sepolcri
come li intitolò Foscolo, sono un carme di 295 endecasillabi sciolti,
scritto nel 1806 e pubblicato a Brescia l'anno dopo. Essi furono composti
sotto la suggestione del decreto napoleonico di Saint- Cloud (1804) con il
quale, per ragioni igieniche, s' imponeva la sepoltura dei morti fuori elle
mura cittadine in cimiteri appositamente costruiti e, per ragioni
democratiche, si stabiliva che le lapidi dovessero essere tutte di uguale
grandezza e che le iscrizioni fossero controllate da un' apposita commissione.
L'estensione del decreto napoleonico all' Italia avvenne nel 1806 e questo
fatto aveva rinfocolato le discussioni, a una di queste discussioni partecipò
Foscolo, subito dopo il suo ritorno dalla Francia. Egli discuteva del problema
con Ippolito Pindemonte che, nel suo poemetto sui Cimiteri, riaffermava
i valori del culto cristiano. Inizialmente Foscolo, coerentemente con le sue
posizioni materialistiche, aveva assunto un atteggiamento di scetticismo e di
indifferenza, più tardi però, era nata in lui l'idea del carme e l'aveva
voluto indirizzare al suo interlocutore di una volta: da ciò la forma esterna
del carme che si presenta come una epistola poetica a Ippolito Pindemonte.
Vi sono anche altri elementi che agiscono
sull'ispirazione del poeta, ad esempio, le suggestioni della poesia sepolcrale
inglese e alcune motivazioni interiori che lo spingono alla riflessione
sul tema della morte e sulla funzione consolatoria della tomba. Nel
riprendere il discorso interrotto con Pindemonte, Foscolo affronta l'argomento
da una prospettiva completamente diversa, che non ha più niente a che vedere
con le discussioni giuridiche né con la difesa della tradizione cristiana. Ciò
che veramente interessa al poeta è il significato e la funzione che la tomba
viene ad assumere per i vivi. In questa prospettiva il carme si pone come
celebrazione dei valori e degli ideali che possono dare un significato alla
vita e all' impegno dell' uomo, facendo emergere l'impegno civile e politico
dello scrittore affinché la sua poesia sia testimonianza della politica, della
storia, della morale del proprio tempo, e si ponga il compito di formare la
coscienza nazionale.
Foscolo non abbandona le sue convinzioni
materialistiche che, anzi, ribadisce con forza nei primi versi del
componimento. Il carme si apre con la negazione di ogni trascendenza e la
riaffermazione del pensiero materialista; su un piano razionale le tombe sono
inutili perché l'uomo non vive dopo la morte del suo corpo. Quando si è
privati del godimento della bellezza della natura, delle speranze del futuro e
della fruizione degli affetti, l'esistenza o meno di un sepolcro non modifica
la condizione negativa del defunto, a lui non resta che un destino di oblio e
di annullamento. Dalla morte, cioè dal nulla, il poeta sa guardare, già all'
inizio del carme alle forme della vita:
All' ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d' animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergin Muse e dell'amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?
C'è in questi versi la sintesi di tutte le
gioie che rendevano la vita, agli occhi del Foscolo, degna di essere vissuta:
la natura, popolata di animali e di piante, i sogni dell'avvenire, l'amicizia
e soprattutto la poesia e l'amore, c'è il recupero nella vita di quelle forze
e di quegli ideali che superano il limite della morte. Nasce così l'esigenza
dell' «illusione»
che riafferma sul piano del sentimento quanto è negato dall' intelletto. Se la
vita individuale si annulla nella materia, le illusioni, gli ideali, i valori
e le tradizioni dell' uomo vanno oltre la morte perché rimangono nella memoria
dei vivi e consentono una sopravvivenza dopo la morte a chi ha lasciato
eredità d'affetti. Questa sopravvivenza però non è concessa a tutti,
solo agli uomini che faticosamente conquistano durante la vita terrena, il
diritto di ricordo presso le generazioni future, è un vivere oltre la morte.
La tomba non ha senso per chi non ha lasciato
«eredità d'affetti», questo ideale di sopravvivenza non ha valore oggettivo e
assoluto, ma soggettivo e affettivo. Al centro di questo concetto c'è
la tomba che è il luogo in cui convergono la pietà degli amici e dei parenti,
è il luogo privilegiato che realizza la continuità di valori da padre in
figlio, è il simbolo delle memorie di tutta una famiglia ma è soprattutto il
luogo che racchiude in sé i valori ideali e civili di tutto un popolo, è anche
il luogo privilegiato che realizza la continuità di valori tra tutti gli
uomini del mondo i cui meriti non sono travolti dal tempo ma eternati dal
canto dei poeti.
E Foscolo da ampio spazio all'esaltazione
delle tombe di Santa Croce, la memoria delle quali è un bene assoluto perché
quando agli italiani si offrirà la possibilità di gloriose azioni, da queste
trarranno ispirazione ed incitamento ad agire.
E c'è anche la celebrazione delle tombe greche
a Maratona che trasporta il poeta in quel mondo antico che occuperà tutta la
parte finale del carme. Questa si divide in due sezioni: nella prima si
celebra la funzione riparatrice del sepolcro, che rende giustizia agli eroi
privati in vita degli onori; nella seconda si celebra la forza eternatrice
della poesia oltre l'usura del tempo: c'è la vittoria greca, c'è il
dolore degli sconfitti, c'è l'eroismo sfortunato di Ettore, tutti valori che
saranno ricordati per sempre. Gli sfondi paesistici dei Sepolcri si
tingono di tinte eroiche: grandioso e balenante il campo di Maratona, popolato
nella notte dai fantasmi dei morti guerrieri che tornano alla battaglia,
mentre sul tumulto delle falangi, sullo scalpitar dei cavalli e sugli squilli
delle trombe e gli inni dei vincitori e il pianto dei vinti, si
alza il canto delle Parche.
La stessa osservazione vale per il paesaggio
fiorentino, che serve di preludio all'esaltazione delle glorie poetiche di
Firenze e poi, alla celebrazione dei grandi di Santa Croce:
Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe' lavacri
che da' suoi gioghi a te versa Appennino!
Lieta dell'aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d'oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi
Ma nei Sepolcri non ci sono solo
celebrazioni e esaltazioni, c' è pure indiretta ma esplicita la rivolta
contro Napoleone là dove il poeta pone come esempio agli Italiani i cimiteri
inglesi ed esalta la prodezza di Nelson, il vincitore di Napoleone: ma la
rivolta sfuma anche qui e si innalza alla contemplazione dell'eroismo
patriottico. Foscolo condanna la bassezza morale del regime napoleonico e
denuncia la negligenza di Milano rispetto alla tomba del Parini. E poi c'è il
compito del poeta, con lui ci sono i degni, i poveri di fortuna ma ricchi di
fierezza interiore, il vertice morale del carme è qui, in queste note di
dignità civile; la grandezza di questa pagina nasce dall' unità di tono per
cui si accordano in canto altissimo motivi diversi, ma legati, da un
comune destino di poesia. Per raggiungere questo risultato Foscolo si avvale
dell' ode pindarica, fatta di rapidi e bruschi trapassi che permettano di
connettere passato e presente. Un componimento del genere non aveva esempi
nella tradizione e Foscolo chiamò classicamente
«carme» e fu un carme in cui i vocaboli valgono non in sé ma soprattutto per
le idee e le immagini che richiamano. Il pindarismo raggiunge le sue vette più
alte ed espressive di poesie, nella parte finale del carme, nel
vaticinio di Cassandra e nella potente immagine di Omero, il cieco
veggente che sarà chiamato a rendere giustizia col suo canto a tutti gli eroi,
sicché i prìncipi argivi, vittoriosi saranno celebrati in eterno, ma Ettore,
morto per la patria sarà in eterno onorato di pianto «Proteggete miei
padri » dice Cassandra alle palme e ai cipressi piantati dalle nuore di Priamo
sulle tombe degli sposi caduti. E ripete:
« Proteggete i
miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco
errar sotto le vostre
antichissime
ombre, e brancolando
penetrar negli
avelli, e abbraciar l'urne,
e interrogarle.
Gemeranno gli antri
secreti, e tutta
narrerà la tomba
Ilio raso due
volte e risorto
splendidamente
sulle mute vie
per far più bello
l'ultimo trofeo
ai fatali Pelidi.
Il sacro Vate,
placando quelle
afflitte alme col canto,
i prenci argivi
eternerà per quante
abbraccia terre
il gra padre Oceàno.
E tu onore di
pianti, Ettore, avrai,
ove fia santo e
lagrimato il sangue
per la patria
versato, e finché il Sole
risplenderà sulle
sciagure umane. »
La chiusura del
carme ribadisce emblematicamente che i Sepolcri per Foscolo sono il
grande poema dell' illusione, per mezzo della quale l'uomo può recuperare quei
valori fondamentali di patria, libertà, onestà, bellezza, strettamente
congiunti con la concezione del mondo del poeta e del suo impegno etico e
civile.
Maria Giovanna Argentiero
Domanda
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