LE GRAZIE
Nelle Grazie c'è l'esaltazione della grande poesia, che per altro diventa esaltazione della bellezza in ogni sua forma, motivo per cui, esse sono state spesso indicate dalla critica come un'opera puramente lirica, proiettata verso una dimensione di assoluta armonia, di serenità; lontana quindi, dai contenuti etico-politici che avevano contraddistinto la precedente produzione di Foscolo. Si potrebbe dire che le Grazie rappresentano la volontà del poeta di conquistare una propria armonia di affetti e passioni, non direttamente connessa alla drammatica situazione storica in cui viveva. Molto più dell'Ortis e dei Sonetti, la produzione delle Grazie fu saltuaria, tormentata e complessa, tanto che Foscolo ci lavorò fino agli ultimi anni di vita: la difficoltà maggiore era saper dare una struttura coerente alla variegata produzione dei frammenti che compongono Le Grazie.
La prima ispirazione delle carme risale presumibilmente agli inizi del secolo quando il poeta aveva ideato vari inni, uno dei quali si intitolava proprio, Alle Grazie e seppure nell'indeterminatezza del disegno e' riscontrabile tuttavia, la presenza, sopra la fatalità della nostra triste condizione umana, di una consolazione altrettanto immancabile, creata dalla bellezza. E la bellezza sarà una delle parole chiave del carme. Nel 1803 inoltre, Foscolo introduceva nel commento alla Chioma di Berenice quattro brevi frammenti che fingeva di avere tradotto da un antico testo greco, essi entreranno nell'edizione definitiva delle Grazie. In ultimo, l'idea del carme divenne cosa concreta a Firenze, fra il 1812 e il 1813. Qui era stata esposta la Venere del Canova, e si anticipava che lo stesso artista si apprestava a scolpire anche il gruppo delle Grazie. A Foscolo inizialmente balenò l'idea di comporre un inno a Venere, poi allargò il disegno a tre inni da dedicare al grande scultore neoclassico. Gli anni fiorentini furono determinanti per la produzione poetica delle Grazie, e furono anche i migliori considerato che già l'anno dopo, a Milano, Foscolo incontrava serie difficoltà per organizzare i frammenti nella struttura di un vero poema, ma non demorse e continuò a ritornarci su fino agli ultimi anni della sua vita. Da vivo pubblicò solo pochi frammenti, gli altri furono pubblicati postumi dapprima da Francesco Silvio Orlandini che ricostruì il carme, raggruppando i frammenti, ordinandoli, correggendoli e aggiungendo pure versi per collegare fra loro le parti slegate. Egli ottenne un testo di 1548 versi che pubblicò nel 1848. Ma questa pubblicazione non convinse molto e fu Chiarini a riprendere in esame i manoscritti del Foscolo, depositati alla biblioteca Labronica di Livorno, e pubblicò il testo critico di tutte le poesie del Foscolo, comprese le Grazie, nel 1890 e riedita nel 1904. Ad opera di Mario Scotti nel 1985 fu proposta un'ulteriore edizione critica.
Al di là della critica, è lo stesso Foscolo a chiarire ai posteri lo spirito autentico della poesia delle Grazie e lo fa attraverso una «Ragion poetica del Carme», un «Sistema degli inni», e « Sommari del Carme»; tutte prove esplicative con cui andava sistemando questa materia così varia e vasta e che sono delle linee-guida preziose nella ricostruzione dell'argomento del carme nel rispetto delle intenzioni originali dell'autore. Innanzitutto si chiarisce chi sono le Grazie. Esse sono «divinità intermedie fra la terra e il cielo», «abitatrici invisibili tra gli uomini » di cui mitigano ferinità rendendo loro i doni degli dèi, favorendo quindi l'incivilimento degli uomini. E' il concetto tipicamente neoclassico dell'arte e della bellezza come strumenti dell'elevazione dell'uomo, il riferimento all'arte classica non sorprende visto che il componimento poetico riguarda le figure della mitologia greca delle Grazie che portarono la civiltà fra gli uomini prima di allora ancora rozzi e incivili. L'opera si articola in tre inni e celebra Eufrosine, Aglaia, Talia, ovvero le tre Grazie che attuano in terra l'Armonia: un'armonia non puramente estetica ma integralmente spirituale.
Il primo inno: dedicato a Venere, simbolo della bellezza e della natura generatrice, celebra la nascita delle Grazie, il loro primo apparire sulla terra e il benefico influsso sugli uomini ancora selvaggi, di cui esse riescono a moderare le passioni ed armonizzarle, a renderle strumento di elevazione morale. Si cantano le Grazie reduci in Italia, dopo aver prodotto la civiltà greca, quella dell'Italia romana, quella del Rinascimento.
Il secondo inno: dedicato a Vesta, dea dell'ingegno, narra del rito offerto alle Grazie nel tempio di Bellosguardo da tre donne bellissime che sono Eleonora Nencini, Cornelia Martinetti e Maddalena Bignami, donne realmente amate dal poeta e che simboleggiano le grazie spiranti dalla musica, dalla poesia e dalla danza, vale a dire i doni concessi agli uomini. La prima suona l'arpa e innalza un canto all'armonia che governa le alterne vicende del creato; la seconda reca in dono un favo, simbolo delle poesia che rasserena le passioni; la terza offre un cigno candido e danza mirabilmente
Il terzo inno: dedicato a Pallade, il poeta si trasferisce nell'isola favolosa di Atlantide , in mezzo all'oceano, dove sorge la reggia di Pallade. Qui si rifugiano le Grazie per salvare la loro purezza, minacciata dalle lusinghe d'amore; qui Pallade fa tessere per loro un mistico velo che le difende dalle offese dell'amore e delle passioni umane. E questo ricamo di miti, che sorge insieme nel velo e nei versi del poeta, si risolve ancora in una celebrazione dell'armonia. L'inno si chiude con l'addio alle Grazie e con la promessa di ripetere il rito ogni anno, sui colli fiorentini, alla presenza delle tre sacerdotesse.
Il poeta ha innalzato la sua materia su un piano di contemplazione, dove le immagini fioriscono in un'aria di classicismo antico e ogni passione si smorza e si fonda in una serenità superiore, la vita terrena con le sue dissonanze e il mondo contemporaneo non si spengono del tutto e rimangono, per così dire, in controluce nel poema, quasi a dare consapevolezza della precarietà e della fugacità delle immagini evocate.
Ecco allora il paesaggio ribelle della sua infanzia che riemerge nell'apostrofe a Zacinto:
« Salve, Zacinto! all'antenoree prode,
de' santi Idei ultimo albergo
e de' miei padri, darò i carmi e l'ossa,
e a te il pensier: chè piamente a queste
Dee non favella chi la patria oblia.
Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
era ne' colli suoi l'ombra de' boschi,
sacri al tripudio di Diana e al coro; »
Il primo dato lampante è che il poeta vuole consacrare la grazia, la serenità e la floridezza della sua terra natìa e non vuole dimenticare neppure i ricordi mitologici che la decorano di antica nobiltà. E' una storia dell'anima propria,insomma, quella che il poeta canta, non una divagazione della fantasia. E' più che mai storia dell'anima sua e , insieme storia dell'anima umana, sono i versi in cui è concentrata l'eredità di odio e di guerre rimasta agli uomini anche dopo che Venere, insieme alle Grazie, civilizzò l'isola di Citera, e sommerse nel mare la selva dei cannibali:
«Quindi in noi serpe miseri un natio
delirar di battaglie, e se pietose
nel placano le Dee, cupo riarde
ostentando trofeo l'ossa fraterne.
Ch'io non le veggia almeno or che in Italia
fra le messi biancheggiano insepolte!»
A metà strada tra l'esperienza reale e l'ispirazione dei sensi e della fantasia del poeta, prende forma l'immagine della «sacra danzatrice», della «gentil sonatrice» e della «nutrice d'api» che nella memoria del poeta sono le donne da lui amate e che diventano le sacerdotesse delle Grazie. Ecco, così, l'incanto della danza, suprema espressione di bellezza e di armonia, evocato con quel velo che fugge biancheggiando tra i mirti, ad esprimere una struggente malinconia per un ideale di perfetta bellezza, sempre inseguita e pur sempre fuggente:
«Tento ritrar ne' versi miei la sacra
Danzatrice, men bella allor che siede,
Men di te bella o gentil sonatrice,
Men amabili te quando favelli
O nutrice d'api. Ma se danza
Vedila! tutta l'armonia del suono
Scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso
Della sua bocca, e un moto, un atto, un vezzo
Manda agli sguardi venustà improvvisa.
E chi pinger la può? Mentre a ritrarla
Pongo industre lo sguardo, ecco m'elude
Affretta rapidissima e s'invola
Sorvolando sui fiori; appena veggio
Il vel fuggente biancheggiar fra' mirti. »
Ma è nella mirabile concezione del velo delle Grazie che Foscolo, sembrerebbe voglia far confluire tutte le sue esperienze, le sue passioni, e i suoi affetti quasi come nei Sepolcri, ma diversamente dal poema, non attraverso una severa meditazione bensì per mezzo di un aereo intreccio di miti e di favole. L'episodio è esemplato sui grandi modelli classici ma non ha nulla di artificioso basti pensare che sul velo delle Grazie, le scene più commoventi sono le raffigurazioni, fatto di gioia e di dolore, realtà e sogno, bellezza e morte del vivere umano. Le scene che le dee minori tessono sul velo promesso da Pallade alle Grazie perché siano preservate dalle passioni sono ispirate dunque alla variegata gamma degli affetti umani, in questo senso la poesia delle Grazie può essere letta come una celebrazione dei valori della civiltà. Compassione e pudore sono qualità che possono compensare la ferinità umana, un invito verso un modo di vivere più umano. Nelle figurazioni del velo si incarnano quei valori esistenziali di amicizia, amore coniugale, amore materno e pietà, valori che diventano il metro di giudizio del presente. Su tutti domina una visione pessimistica dell'esistenza e anche la scena della giovinezza, nonostante suoni come un inno è velata di malinconia:
« Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
E nel mezzo del velo ardita balli,
Canti fra 'l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
Antico un plettro il tempo; e la danzante
Discende un clivo onde nessuno risale.
Le Grazie a' piedi suoi destano fiori
A fiorir sue ghirlande, - e quando ilbiondo
Crin t'abbandoni e perderai il tuo nome,
Vivran que' fiori, o Giovinezza, e intorno
L'urna funerea spireranno odore.
Or mesci, amabile Dea, nivee le fila;
E ad un lato del velo Espero sorga
Dal lavor di tue dita; escono, errando
Fra l'ombre e i raggi fuor d'un mirteo bosco,
Due tortorelle mormorando ai baci:
Mirale occulto un rosignuol, e ascolta
Silenzioso; e poi canta imenei:
Fuggono quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre de' fior, lauri alle fila;
E sul contrario lato erri co' specchi
Dell'alba, il sogno; e mandi alle pupille
Sopite del guerrier miseri i volti
Della madre e del padre allor che all'are
Recan lagrime e voti; e quei si desta
E i prigionieri suoi guarda e sospira. »
Potremmo chiudere il discorso sul velo delle Grazie con una notazione di Natalino Sapegno che dice: « tornano le note care ed intense della lirica di Ugo Foscolo: il rimpianto della giovinezza e delle sue vaghe lusinghe, l'inesorabile fuga del tempo, l'amore, la stanchezza e l'umana pietà del guerriero, il convito dell'amicizia e la malinconia dell'esule, il trepido affetto della madre, e il pianto che sottolinea tutte le ore dell'uomo; »
Maria Giovanna Argentiero
Domanda alla professoressa e temi da svolgere
Tesina da far svolgere su argomento a scelta
Indice di tutte le pagine del sito