GIACOMO LEOPARDI

GLI  IDILLI

Il termine idillio rimanda alla letteratura ellenistica e designa una breve composizione georgico-pastorale, in cui si tratteggiano gli stati d'animo dei personaggi. La critica ha indicato come Idilli tutti quei componimenti -i Piccoli Idilli (1819-1821) e i Grandi Idilli  1(828-1830)- in cui il poeta esprime i suoi moti affettivi e le sue riflessioni che prendono spunto dagli ambienti e dai paesaggi naturali. Il termine Idillio, si lega  alle Bucoliche di Virgilio, nelle quali si evocava l'evasione spirituale nella semplicità del mondo della natura in contrapposizione alle ansie del mondo cittadino.

I PICCOLI IDILLI

Questi idilli sono detti piccoli in relazione alla struttura compositiva breve che li differenzia da quella più articolata dei grandi idilli. Dei piccoli idilli fanno parte: Alla Luna, Il Sogno, la Vita Solitaria e Odi, Melisso, La sera del dì di festa, L'Infinito.

Nella «Sera del dì di festa» emerge il contrasto tra la pace della notte e il travaglio dell'animo del poeta che sa di non essere amato. I primi 10 versi recitano così:

« Dolce e chiara è la notte e senza vento,

e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna, e di lontan rivela

serena ogni montagna. O donna mia,

già tace ogni sentiero, e pei balconi

rara traluce la notturna lampa:

tu dormi, che t'accolse agevol sonno

nelle tue chete stanze; e non ti morde

cura nessuna; e già non sai né pensi

quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.»

Con lo stesso vigore è espressa la concezione pessimistica che nel mondo tutto passa. Scompare  persino la grandezza dei popoli antichi e l'impero di Roma,  ed anche  il frastuono e l'attesa del giorno di festa ma  la vera delusione  non è scoprire che il tempo porta tutto via quanto scoprire che la natura rimane indifferente di fronte al crollo di tante civiltà e di tante speranze umane, così ai versi 30-37:

«.....Ecco è fuggito

 il dì festivo, ed al festivo il giorno

volgar succede, e se ne porta il tempo

ogni umano accidente. Or dov'è il suono

di que' popoli antichi? or dov'è il grido

de nostri avi famosi, e il grande impero

di quella Roma, e l'armi e il fragorio

che n'andò per la terra e l'oceàno?»

 

L' Infinito

Sempre caro mi fu quest' ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio;

e il naufragar m' è dolce in questo mare.

 

Nell' «Infinito» il tema  è quello dell' indeterminatezza, del vago, del remoto nel tempo e nello spazio, dell'infinito, appunto. Accanto a questo, forte è il motivo della rimembranza alla cui luce prendono forma i luoghi ed i momenti della lirica. Infatti, anche quando sono citati, come nel caso del colle e della siepe, i riferimenti materiali non fungono mai da spunto per una descrizione del paesaggio ma sono sempre il pretesto di riflessioni e di  ripensamenti e, come usa dire Leopardi, parlando degli Idilli, di «situazioni, affezioni, avventure» dell'animo dell'autore. Quella siepe è l'impedimento allo sguardo del poeta di andare oltre, di cogliere le sfumature delle cose e della vita, contemporaneamente però, la siepe funge da spinta per quel processo di astrazione, per quello spazio immaginario di « interminati spazi e di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete». Notevole in questo verso il linguaggio poetico, sono sostantivi e aggettivi che corrispondono perfettamente alle concezioni espresse nello Zibaldone sulla parola poetica. Sparsi nella poesia troviamo parole come orizzonte, interminati, sovrumani, profondissima, infinito, comparando, immensità, naufragar che da soli bastano a rendere l'idea di infinito.

 

 

LE OPERETTE MORALI

Le operette morali furono scritte nel 1824 dopo il soggiorno di Leopardi nella capitale. In realtà, proprio lui che non vedeva l'ora di uscire dai confini ristretti di Recanati, rimase deluso da questo viaggio a lungo desiderato. Qui, non poté trovare i valori che andava inseguendo e la grande città gli sembrò come una grande Recanati. Leopardi soffre per l'impossibilità di incontrare quei valori che egli sognava ed una solitudine ancora più grande invade il suo animo. A Roma non si apre ma si chiude alla società. 

Leopardi chiamerà questa condizione come «il vizio dell' absence», e indicherà come unica nota felice di questo soggiorno romano, il sepolcro di Tasso.

In questa condizione spirituale Leopardi scrive le Operette morali, 24 tra dialoghi e prose di riflessione sulla condizione dell' uomo. 19 composte nel 1824; una nel 1825; due nel 1827 e due nel 1832. Temi ricorrenti sono la felicità, l'amore, il piacere, la speranza e l'indifferenza della natura. La riflessione centrale fa leva sul problema vita- felicità, ossia sulla sproporzione tra l'infinita ricerca di felicità del singolo e le offerte parziali della realtà. Non a caso questo tema è il motivo dominante della Storia del genere umano con cui si aprono le Operette, una specie di introduzione all'opera. Sulla base delle tematiche affrontate le Operette morali si possono dividere in tre gruppi:

1)  irrisione del mito dell'antropocentrismo e dell' immortalità dell'anima - Dialogo di Ercole e Atlante, Dialogo della Natura e di un Islandese, Dialogo di Timandro ed Eleandro;

2)condizione di nullità dell'uomo nell'universo, del male e della noia - Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare, Dialogo di Fedetico Ruysch e delle sue mummie;

3) constatazione che la vita umana ha come fine il dolore e la morte - Dialogo di Tristano e di un amico, Dialogo della moda e della morte e Cantico del Gallo silvestre. Nel Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, la miseria umana è contemplata con più distacco e su tutto prevale la malinconia.

Nel dialogo della Natura e di un Islandese la concezione espressa è rigidamente materialistica per cui non c'è spazio per i grandi ideali dell'umanità, della bellezza, dell'amore, della poesia, della libertà e della giustizia. Si è già approdati a quel pessimismo cosmico che investe non solo l'uomo ma la natura stessa e l'essenza stessa della vita degli uomini e delle cose,la concezione secondo cui i mali che colpiscono l'uomo non sono casuali ma si presentano con una sistematicità che è propria dell'ordine naturale. L'Islandese, ad esempio, è stato afflitto da intemperie, eruzioni vulcaniche, malattie, incedi, aggressioni di belve, la realtà è sbagliata ma, purtroppo, non è mutabile. Nel Dialogo l'Islandese dice: «Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di nessun' ingiuria.» Ed ancora: « Io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza pene ».

La domanda finale posta nel Dialogo della natura e di un islandese – a chi piace  o a chi giova cotesta vita in felicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?-  non trova risposta in quel dialogo ma  viene riproposta nel Cantico del gallo silvestre. E' il dialogo che  chiude le Operette Morali in cui Leopardi sintetizza la sua visione pessimistica e sembra riassumere tutto il suo pensiero.  Mai come questa volta la morte è la protagonista indiscussa, è il cantico della morte. La terra si mostra spoglia e priva di vita, senza canti né voci né opere degli uomini o movimenti degli animali, il sole sorge impassibile, incurante, fino a questo punto è inutile la vita e l’universo intero.

Questo canto è l’espressione più alta dell’infelicità umana e di tutte le cose che esistono giacché l’esistenza è stata data solo perché potessero morire.

Si veda, ad esempio, il passo in cui il  Gallo Silvestre si appresta a svegliare le persone:

«Su, mortali destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero. Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’ animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno  per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente conservasi intera e salva; ma in questo, o manca o declina.»

Ancora:

«Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere  per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’ api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi esser beato?»

Le grandi domande delle Operette morali si muovono sostanzialmente in 3 direzioni: la prima vede la vicenda umana come la storia di una sempre insoddisfacente aspirazione al piacere (Storia del genere umano); la seconda ha come protagonista la natura matrigna, attenta solo alle leggi generali dell'universo e incurante dell'uomo (Dialogo della natura e di un islandese) ; la terza sottolinea che la vita è solo in funzione della morte (Cantico del Gallo Silvestre).

Tutte le altre Operette seguono questi temi approfondendoli di volta in volta, nel caso del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, legato alla tematica del piacere, si sviluppa il grande tema della morte con le riflessioni sulla condizione dei defunti, sul dolore della morte e sulla possibilità di rapporto con i vivi. L'opera è immaginata come dialogo tra lo scienziato Ruysch, dipinto in modo caricaturale  e le sue umanissime scimmie; l'eccezionalità del fatto che nel breve volgere di un quarto d'ora i morti possono parlare con i vivi. Il senso del dialogo è che tutto è materia, la felicità non è data per i vivi né per i morti.

Ma se pure inutile, la vita esiste e su di essa dobbiamo concentrarci per cercare di sfuggire al nostro destino di dolore, almeno per qualche momento. E' questo il senso del Dialogo di  Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez. Il grande motivo del dialogo è quello dell'attesa. Solo l'attesa può in qualche modo dare una sensazione di gioiosa vitalità e può farci dimenticare per qualche momento che essa sarà vana e non servirà a sottrarci definitivamente dalla nostra condizione. Certo, il saggio non si illude: ma alla noia preferisce il rischio, all'inerzia l'azione. E in tal modo può ritrovare il sapore delle cose, il valore e la bellezza dell'aria dolce, della notte silente, di un lembo di terra.

Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, parlando dell' inutilità della vita, il primo dissuade il secondo dal suicidio non in nome della ragione ma in nome di una certa solidarietà che ci fa sentire vicini agli altri uomini condannati a una medesima sorte.

Chiude le Operette, il Dialogo di Tristano e di un amico che è quasi il testamento filosofico di Leopardi

Nel 1830 Leopardi si allontana definitivamente da Recanati. In questa fase della sua poesia, egli sente l'esigenza di lasciare un messaggio agli uomini, quasi che questi possano trovare nella sua filosofia l'esaltazione di un uomo che sa accettare con eroismo il suo destino e che sa essere scoprire solidarietà e fratellanza con chi condivide la stessa sorte di infelicità e dolore. In questo senso è l'unica fase delle poesia leopardiana che non guarda al passato e non si ripiega sui ricordi ma vive tutta nel presente.

I GRANDI IDILLI

I Grandi Idilli segnano il ritorno della produzione poetica leopardiana tra il 1828-1830, dopo che Egli si era dedicato alla prosa scrivendo le Operette Morali che gli avevano procurato la triste convinzione che l'origine dei nostri mali non risiede nell'uomo in quanto tale bensì nella natura e  tutti i viventi sono vittime dello stesso destino.

Ci allontaniamo dalla teoria del piacere e della felicità vagheggiata nei Piccoli Idilli e ci addentriamo in un discorso via via più pessimistico che vede la natura come una matrigna; questa riflessione amara accompagnerà ogni singolo canto di questa produzione.

I Grandi Idilli comprendono: Il risorgimento, A Silvia, le ricordanze, la quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il passero solitario. Ed ogni componimento ripropone, ciascuno secondo una propria peculiarità, un’amara meditazione sul destino degli uomini da cui scaturiscono affermazioni di carattere universale. Siamo lontani dunque dai toni polemici e dai risentimenti personali che avevano caratterizzato i piccoli idilli. I termini che qui contano sono ricordo nel senso di memoria della vita passata e universalità nel senso di vicende che riguardano tutta l’umanità.

Nel Canto Notturno di un pastore errante dell' Asia l'esperienza individuale diventa collettiva ed universale.

Si narra la vicenda di un pastore primitivo di una lontana regione dell'Asia ma è anche e soprattutto la vicenda dell'uomo moderno. Leopardi si lascia alle spalle l' ambiente di Recanati e la propria esperienza personale, si allontana dalla poetica della rimembranza ed abbraccia l'idea che i veri sapienti sono gli antichi i quali arrivano per istinto a scoprire quelle verità alla ricerca delle quali gli uomini civili si affannano con ragionamenti vari.

Il pastore chiede:

«Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?»

Vecchierel bianco, infermo,

mezzo vestito e scalzo,

con gravissimo fascio in su le spalle,

per la montagna e per la valle,

per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

al vento, alla tempesta, e quando avvampa

l'ora, e quando poi gela,

corre via, corre, anela,

varca torrenti e stagni,

cade, risorge, epiù e più s'affretta,

senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin arriva

colà dove la via

e dove il tanto affaticar fu volto:

abisso orrido, immenso,

ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

è la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.»

Chi medita dunque, non è un filosofo ma l'anima semplice di un pastore che guarda con occhi sognanti la luna e le stelle, ponendosi domande, interrogandosi sul senso della vita e non riuscendo a rispondere ai tanti "perché". Il senso profondo della lirica è che il filosofo non è in grado di svelare i perché delle cose esattamente come il pastore. Questi guarda alla luna pieno di aspettative come fosse la sua confidente. La concezione sottose al canto è quella del pessimismo cosmico, dove la causa sostanziale dell'infelicità degli uomini no risiede nella civiltà e nel progresso ma nella stessa natura che è matrigna crudele che genera e distrugge gli esseri viventi.

 Da questa prospettiva deriva la poesia della infelicità degli uomini espressa attraverso le riflessioni di una semplice pastore perché, come dice Leopardi nello Zibaldone, i fanciulli ed i primitivi sono capaci di una più viva ed immediata scoperta del vero, più semplici ed intuitivi rispetto ai moderni, impacciati dalla razionalità.

La vita della luna somiglia a quella del pastore errante dell' Asia che ripete anch'egli ogni giorno gli stessi gesti, percorre le stesse strade, alla fine si riposa e «altro mai non ispera». Ed è per questo che egli si rivolge alla luna come ad un'amica, una confidente a cui porre quelle domande a cui l'uomo non sa rispondere; egli chiede: «ove tende questo vagar mio breve?» ma la luna è indifferente alla sorte degli uomini e l'ultima triste riflessione è: «è funesto a chi nasce il dì natale».

Da tanta desolazione emerge l'unico periodo felice che è quello dell' infanzia, che è l'età delle speranze e delle illusioni. Infanzia, speranze ed illusioni sono le parole chiavi della lirica A Silvia:

A Silvia

Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

quando beltà splendea

negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

e tu, lieta e pensosa, il limitare

di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie d’intorno,

al tuo perpetuo canto,

allor che all’opre femminili intenta

sedevi, assai contenta

di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Silvia, la protagonista della famosa lirica, appartiene all' età delle illusioni, ella che muore ancor prima ancora di poter vivere la sua vita di donna. Rimane in questa lirica il tema del ricordo e della nostalgia che è cosa più forte dei riferimenti biografici del poeta; l'immagine di Silvia è rievocata espressamente alla luce delle giovanili speranze. Il canto che ha una precisa struttura interna  mette in risalto nelle prime strofe le speranze giovanili di Silvia e del poeta,  nelle ultime strofe, invece, si descrive  la morte di quelle illusioni. Alla parte centrale della poesia inoltre, è affidato il nodo di tutta la poetica di Leopardi, la tensione costante, cioè, alla felicità umana che è cosa connaturata all'uomo e l'impossibilità di realizzarla; l'uomo dunque è condannato all'infelicità e questa considerazione assume un carattere universale, quando, negli ultimi versi, il destino di morte di Silvia sembra contenere in sé il crollo delle speranze e delle illusioni di tutti gli uomini.

E così, in questa prospettiva di pessimismo e di morte quale destino ineluttabile di tutti gli uomini, persino le prime strofe diventano malinconiche, espressione di quella adolescenza che sta per fuggire:

Gli occhi fuggitivi, il limitare di gioventù, il vago avvenire sono aggettivi che da un lato esprimono la pienezza della vita e tutte le speranze della giovane ma dall’altro, suggeriscono l’idea di qualcosa che dileguando scompare; secondo l’uso della parola poetica tipica della poesia di Leopardi.

Altro tema fondamentale è il tema della rimembranza.

Leopardi compone nel 1829 -Le Ricordanze- dal ricordo, appunto, dell’ infantile fantasticare del poeta nel giardino della casa paterna, emerge la figura di Nerina, insieme alla quale fantasticava una felicità sconosciuta. Ben presto la felicità si svela come qualcosa di inconsistente:

Le ricordanze

« O speranze, speranze, ameni inganni

della mia prima età! Sempre, parlando,

ritorno a voi; ché per andar di tempo,

per variar d’affetti e di pensieri,

obliar non so. Fantasmi, intendo,

son la gloria e l’onor; diletti e beni

mero desio; non ha la vita un frutto,

inutile miseria. E sebben voti

sono gli anni miei, sebben deserto, oscuro

il mio stato mortal, poco m toglie

la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta

a voi ripenso, o mie speranze antiche,

ed a quel caro immaginar mio primo;

indi riguardo il mio viver sì vile

e sì dolente, e che la morte è quello

che di cotanta speme oggi m’avanza;

sento serrami il cor, sento ch’al tutto

consolarmi non so del mio destino.»

Dopo Silvia e Nerina, gli uomini e le cose tornano protagonisti della riflessione poetica di Leopardi nei due canti, Il Sabato del Villaggio e la quiete dopo la Tempesta. Entrambi composti a Recanati nel 1829 ed entrambi hanno come tema di fondo una felicità illusoria mai duratura, intesa come cessazione temporanea del dolore (Quiete)  o come attesa e speranza di una felicità futura ( il sabato del villaggio).

Sono i così detti – miti del borgo- in cui si nota una sorta di tenera umanità nella rievocazione della vita di questi uomini dell’era antica quando, ancora fanciulli, possono avere il dono dell’illusione, si riconosce nelle strofe del sabato del villaggio, la Recanati degli umili: la donzelletta, la vecchierella, il garzoncello. E queste scene di vita quotidiana diventano dei veri e propri miti attraverso il realismo della descrizione che le dona atemporalità e le fa sembrare sempre attuali. Anche qui, dunque, predomina la dimensione universale, che è caratteristica della poesia di leopardi; ed anche qui, un finale di malinconia e di amarezza.

 

Il sabato del villaggio

« Garzoncello scherzoso,

codesta età fiorita

è come un giorno d’allegrezza pieno,

giorno chiaro, sereno,

che precorre alla festa di tua vita.

Godi, fanciullo mio; stato soave,

stagion lieta è cotesta.

Altro dirvi non vo’; ma la tua festa

ch’anco tardi a venir non ti sia grave».

 

 

La quiete dopo la tempesta

« Passata è la tempesta:

odo augelli far festa, e la gallina,

tornata in su la via,

che ripete il suo verso. Ecco il sereno

rompe là da ponente, alla montagna;

sgombrasi la campagna,

e chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra , in ogni lato

risorge il romorio,

torna il lavoro usato»

La descrizione è delle scene di vita quotidiana, con una predisposizione d'animo che volge al positivo suggerendo un senso di liberazione, c'è l'artigiano che riprende il lavoro cantando, c'è l'erbaiuolo e soprattutto c'è il «Sol che ritorna»; ma, immancabile, alla fine della canzone, torna il riferimento alla natura dispensatrice di dolori ed affanni e solo la morte libererà l'uomo da questo stato di tempesta umana.

 

Al Ciclo di Aspasia appartengono Il Pensiero dominante, A se stesso.

E' questa l'ultima fase della poesia leopardiana nella quale il poeta non si ripiega più sui ricordi, ma sembra vivere tutto nel presente, nella dimensione nuova rivelata attraverso l'amore, l'amicizia e  la conoscenza effettiva degli uomini e delle cose.

I primi 10 versi recitano:

Il Pensier dominante

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lugubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sì spesso torni 

Gli ultimi 10:

Da che ti vidi pria,

di qual mia seria cura ultimo obbietto

non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

ch'io di te non pensassi? ai sogni miei

la tua sovrana imago

quante volte mancò? Bella qual sogno,

angelica sembianza,

nella terrena stanza,

nell'alte vie dell'universo intero,

che chiedo io mai, che spero

altro che gli occhi tuoi veder più vago?

altro più dolce aver che il tuo pensiero?

In questi versi si coglie il sentimento amoroso espresso con vigore e dolcezza insieme alla capacità di imporsi sopra ogni altro pensiero, si coglie inoltre la maturazione poetica e l'esaltazione del pensiero d'amore dopo l'esperienza della passione amorosa di questi anni, probabilmente passione non corrisposta per la Torgioni Tozzetti.

 

A se stesso

Or poserai per sempre,

stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,

ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,

in noi di cari inganni ,

non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assai

palpitasti. Non val cosa nessuna

i moti tuoi, né di sospiri è degna

la terra. Amaro e noia

la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T' acqueta omai. Dispera

l'ultima volta. Al gener nostro il fato

non donò che il morire. Omai disprezza

te, la natura, il brutto

poter che, ascoso, a comun danno impera,

e l'infinita vanità del tutto.

In questi versi cade senza possibilità di ritorno, anche l'ultima illusione d'amore, non rimane né la speranza né il desiderio di illudersi resta invece la consapevolezza della sofferenza così come l'unico dono che la natura concede è la morte.

 

Dopo il 1830 Leopardi vive prima a Firenze, poi a Roma e poi presso l'amico Antonio Ranieri a Napoli. Incontrò la signora Targioni Tozzetti dalla cui delusione d'amore nacquero i canti dell_'inganno estremo_, compone i sui canti più impegnativi: la Ginestra, il Tramonto della luna.

Il Tramonto della luna si apre con il paragone fra il tramonto della luna e la fine della giovinezza, alla notte illuminata dalla luna segue l'oscurità più profonda proprio come alla giovinezza segue l'età adulta e la vecchiaia. E' la natura che ha modificato l'illusione in delusione passando dal concetto di utilità a inutilità della vita, durante la vecchiaia non è più concesso illudersi.

La Ginestra o il fiore del deserto

denuncia nell'epigrafe la cecità dell'uomo:

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.                                                                                                                                 Giovanni, III, 19.           

v. 297 « E tu, lenta ginestra,

che di selve odorate

queste campagne dispogliate adorni,

anche tu presto alla crudel possanza

soccomberai del sotterraneo foco,

che ritornando al loco

già noto, stenderà l'avaro lembo

su tue molli foreste. E piegherai

sotto il fascio mortal non renitente

il tuo capo innocente:

ma non piegato insino allora indarno

codardamente supplicando innanzi

al futuro oppressor; ma non eretto

con forsennato orgoglio inver le stelle,

né sul deserto, dove

e la sede e i natali

non per voler ma per fortuna avesti;

ma più saggia, ma tanto

meno inferma dell'uom, quanto le frali

tue stirpi non credesti

o dal fato o da te fatte immortali.»

 

La prima osservazione è sulla straordinaria lunghezza del componimento, 317 versi e ampie parti argomentative,  la struttura organica e unitaria è garantita da un richiamo costante tra le tematiche principali della lirica. Sostanzialmente le 7 strofe corrispondono a una suddivisione della poesia in 7 sequenze che hanno in comune la critica allo sviluppo e al progresso storico dell' uomo :

1) la ginestra 2) la vanità della storia del passato (vv.1-51) 3)  la polemica (vv.52-157) 4) la nullità dell'uomo (vv.158-201) 5) la vanità della storia nel passato (vv.202-235) 6) la vanità della storia nel presente (vv237-296) 7) la ginestra (vv. 237-317). Semplificando ancora si nota che il punto 7) è una  ripresa del punto 1) e che i punti 2) 4) 5) 6) trattano la stessa problematica. L'apertura e la chiusura del canto circoscrivono in un ambiente desertico e lavico i due elementi della poesia, il vulcano e la ginestra, questa è l'unica pianta cha a differenza delle altre riesce ad attecchire in quei luoghi aridi e sterili,  l'altro è il deserto del mondo e della vita. Anche la condizione umana è soggetta al prepotere delle natura.                                                                                                                       

Ampia poesia che trae ispirazione dall'aspro paesaggi lavico delle pendici del Vesuvio, habitat naturale del fiore che dà  il titolo alla lirica. E' il canto del dolore universale, la ginestra è simbolo dell'uomo che, pur conoscendo il duro destino che la Natura gli ha assegnato, eroicamente cerca di opporsi. Sorge una nuova prospettiva etica, fondata sulla solidarietà fra gli uomini, accomunati dallo steso destino di dolore. Nella ginestra il poeta sembra volgere il suo sguardo verso l'avvenire, prefigurando una città futura, alternativa  a quella borghese, che si fonda sullo  spirito di condivisione fraterna del destino mortale che accomuna tutti gli uomini. E così, ai versi 145-157, Leopardi indica esplicitamente come conquiste proposte all'uomo, i valori della vita sociale:

v. 145 «Così fatti pensieri

quando fìen, come fur, palesi al volgo,

e quell'orror che primo

contro l'empia natura

strinse i mortali in social catena,

fia ricondotto in parte

da verace saper, l'onesto e il retto

conversar cittadino,

e giustizia e pietade, altra radice

avranno allor che non superbe fole,

ove fondata proibità del volgo

così star suole in piede

quale star può quel c' ha in error la sede.»

 

Leopardi muore il 14 giugno 1837.

 

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